Il volto velato. Solo una fessura per gli occhi: non siamo in Afghanistan ma all'istituto superiore Sandro Pertini di Monfalcone, nel cuore del Friuli più multietnico. Sembra incredibile, ma, come ha rivelato il quotidiano Il Piccolo, quattro studentesse si presentano a scuola bardate in questo modo tutte le mattine. Prima di entrare in classe, un'impiegata dell'istituto fa loro alzare il velo, per essere sicura che siano proprio loro e non altre, sotto il niqab (foto). Insomma, le fanciulle si sottopongono a questo controllo e vengono identificate, poi vanno a sedersi tranquillamente in mezzo ai loro compagni.
Le giovani sono quasi tutte bengalesi e per una ragione o per l'altra raccontano una storia che spettina tutte le nostre convinzioni: «I miei genitori - afferma una di loro - non volevano che vestissi il niqab, è una mia scelta. Ho iniziato a portarlo nel secondo semestre della prima e capisco che faccia paura, perché è tutto nero». Insomma, fierezza ed estetica. Ma naturalmente al di là delle parole della protagonista, il niqab rimanda a una mentalità che invece relega la donna in una condizione di inferiorità. «Inaccettabile che una scuola sia costretta ad adattare i propri regolamenti per sottostare a culture incompatibili con i nostri valori» commenta Matteo Salvini e rilancia: «Avanti con la proposta della Lega». Un testo a prima firma del capogruppo in commissione Affari costituzionali alla Camera Igor Iezzi chiede infatti una stretta sulla legge del '75 che vieta, per motivi di sicurezza, di nascondere il viso in luoghi pubblici.
La dirigente del Pertini intanto spiega: «Il ragionamento a inizio anno ci ha portato a ritenere che imporre può indurre le ragazze a lasciare la scuola, mentre l'istituzione raggiunge il suo scopo quando l'allievo consegue i cinque anni di studio». Può sembrare, e forse è, la scelta del male minore che però non cancella la mortificazione e per certi versi confonde le idee. Se il niqab, pur rivendicato, è il segno di una cultura autoritaria, perché lasciarlo? «Vogliamo far sentire a casa le giovani - ribatte Piraino - e capire se il lavoro di insegnanti e compagni possa portarle a essere più libere». Dunque, la dirigente iscrive la libertà dentro un percorso di conquista che può passare anche per compromessi e cedimenti. Il niqab, a parte il riconoscimento, è sempre su quei volti. E l'abbigliamento può diventare un problema, almeno nelle ore di scienze motorie. Qui, sempre in nome di una educazione plurale, si è preferito personalizzare le lezioni: le giovani indossano velo e tunica fino ai piedi per nascondere le forme. Dunque, fanno altro rispetto alle colleghe. Per esempio, giocano a badminton. «Ci opponiamo - replica Sasso - a questo buonismo e a questa arrendevolezza».
«Il velo non è l'espressione di una cultura, ma è lesivo della dignità e del rispetto verso le donne - rincara l'assessora all'istruzione della Regione Alessia Rosolen - Urge una riflessione prima politica e poi legislativa». Ma l'esperimento, per ora, va avanti.
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