"Da 30 anni l'Italia non cambia. Ma l'era dei deficit è finita"

L'ex direttore esecutivo del Fmi avverte: "Negoziare con l'Ue qualche decimale di spesa in più è inutile. Fare altri debiti allontana solo la ripresa"

"Da 30 anni l'Italia non cambia. Ma l'era dei deficit è finita"

Per quasi 30 anni Carlo Cottarelli ha lavorato nel centro di Washington, in uno dei due palazzoni del quartier generale del Fondo monetario internazionale. Dai primi di novembre ha trasferito libri e dossier in un ufficio nel centro di Milano, all'Università cattolica, a due passi da Sant'Ambrogio, con affaccio sui portici bramanteschi dell'ateneo. Lasciato il board della massima istituzione finanziaria internazionale è tornato nella Penisola per dare vita all'Osservatorio sui conti pubblici.

Cottarelli, cremonese, 63 anni, delle malandate finanze statali si occupa da una vita. Prima come funzionario del Fmi, dove è arrivato a essere capo del Dipartimento affari fiscali; poi per un anno esatto, tra il novembre del 2013 e l'ottobre 2014 come Commissario alla revisione della spesa, uno dei numerosi Mister Forbici che con alterni successi hanno cercato di mettere ordine nelle casse pubbliche. Al termine della sua esperienza romana ha trovato il modo di scrivere anche un paio di libri: La lista della spesa, sugli sprechi, e Il macigno, sull'eccesso di debito. Nelle prossime settimane ne uscirà un terzo I sette peccati capitali dell'economia italiana (tutti sono pubblicati da Feltrinelli). «C'è un problema di cultura da cambiare», racconta. «Anche su temi come la corruzione Paesi come Singapore o Hong Kong ci sono riusciti in tempi relativamente brevi. È lo sforzo che deve fare l'Italia».

Cominciare dai conti pubblici sembra un sesto grado. Lei con il suo Osservatorio che cosa si propone?

«Partiamo da un principio, che i soldi pubblici sono di tutti. È un'idea più statunitense che italiana visto che noi invece li trattiamo come soldi di nessuno e per questo li sprechiamo con grande noncuranza. Vogliamo cercare di esaminare e rendere chiari i conti dello Stato, promuovere il loro uso corretto, basandoci su un rigoroso esame dei fatti. Quindi ci occuperemo molto di spesa, di debito, di tasse. Il modello è quello del Committee for a responsible budget, un ente non-profit e non partisan, come dicono in America, che ha sede a Washington e ha come obiettivo quello di rendere comprensibili all'opinione pubblica le scelte di bilancio che vengono compiute a livello politico».

Da chi siete finanziati?

«Parte dei soldi sono dell'Università cattolica che mette a disposizione anche le strutture. Poi sono riuscito a trovare altri sostenitori. Ci sono istituzioni finanziarie, imprenditori, società di consulenza».

Lei si è trasferito a Washington nel 1988 e, se si eccettua l'anno da Commissario alla spesa, ha sempre visto l'Italia da oltre oceano. Che differenze ci sono tra il Paese che lei lasciò allora e quello che ritrova oggi?

«In realtà ci sono molti tratti comuni. E purtroppo anche problemi comuni. Per esempio quello del debito, che esplose all'inizio degli anni Novanta, e che non siamo riusciti a risolvere. Una differenza è che allora la crescita dell'economia era più elevata dell'attuale. Ma già negli anni Novanta abbiamo incominciato a sentire l'impatto del crollo demografico visto che in quel decennio la crisi delle nascite degli anni Settanta colpì per la prima volta il mercato del lavoro. Meno lavoratori si traducono in meno crescita complessiva, ma in quel periodo l'aumento del prodotto interno pro-capite restava soddisfacente. In tempi più recenti non è più vero nemmeno questo».

A proposito di debito pubblico: era al 25% del Pil negli anni Sessanta, al 60% all'inizio degli anni Ottanta e al 120% alla caduta della Prima Repubblica tra il 1991 e il 1992. Da allora è aumentato ancora. Che storia raccontano questi numeri?

«Raccontano che dagli Anni settanta abbiamo utilizzato la spesa pubblica come ammortizzatore sociale. E bisogna tornare all'Italia di allora per capirlo: il nostro era un Paese inquieto, avevamo le proteste di piazza, il terrorismo. Abbiamo fatto esplodere la spesa sanitaria e quella pensionistica per mantenere la pace. Altri Paesi hanno aumentato la spesa pubblica innalzando però allo stesso tempo anche le imposte. Noi no. Spendevamo senza incassare e il deficit statale arrivava intorno al 10% del prodotto interno. Per pagarlo stampavamo moneta e la conseguenza era l'inflazione, che per un certo periodo ha navigato intorno al 20% annuo. Poi c'è stato il famoso divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia. La Banca centrale non ha avuto più l'obbligo di comprare titoli di Stato emessi dallo Stato. E allora abbiamo dovuto aumentare i tassi di interesse per convincere gli investitori a comprare i nostri titoli».

Oltre a una pressione fiscale che non teneva conto delle spese c'era anche una diffusissima evasione fiscale.

«A dire la verità l'evasione c'è anche adesso. Ufficialmente in Italia il rapporto tra tasse e Pil è intorno al 42-43%. Solo che il dato statistico del prodotto lordo tiene conto anche dell'evaso. Se io lo tolgo vedo che la pressione delle imposte per chi paga le tasse raggiunge tranquillamente il 50%».

Da allora a oggi troppe tasse e troppo debito. Ma perché il debito fa così male?

«Fondamentalmente ci sono tre motivi. Il primo è che rallenta la crescita. Bisogna imporre tasse più alte per pagare gli interessi e il debito assorbe risorse finanziarie che potrebbero andare verso gli investimenti privati. In più bisogna considerare che se il debito è alto chi presta soldi allo Stato ha paura. Al minimo evento chiede più soldi, sotto forma di maggiori interessi. È il famoso spread che si alza. Ora non ce ne accorgiamo perché la Banca centrale europea con il suo quantitative easing tiene i tassi bassi. Ma le cose possono cambiare e sicuramente cambieranno. Come ultimo elemento posso aggiungere che quando il debito è alto non si può usare l'arma dell'aumento della spesa per sostenere la domanda in caso di crisi dell'economia o per aiutare le banche come hanno fatto altri Paesi».

Abbiamo la palla al piede del debito, ma anche l'ingresso nell'euro non ci ha fatto benissimo.

«Abbiamo sofferto l'entrata nella moneta unica. Ma non era detto che andasse così. Molto semplicemente, non siamo stati capaci di adeguarci alla nuova realtà: i costi di produzione non sono rimasti in linea con quelli di altri Paesi, per esempio la Germania. Dal 2000 al 2008 i costi e i prezzi sono saliti in Italia molto più che altrove; e questo si è tradotto in una perdita di competitività delle aziende».

Come mai è successo?

«Sicuramente ha pesato una certa forza d'inerzia. Con la lira eravamo abituati ad aumentare continuamente i salari per tenere il passo dell'inflazione. Poi ci sono stati aumenti che hanno buttato benzina sul fuoco. Penso per esempio agli aumenti dei salari dei dipendenti pubblici che da noi nei primi anni dell'euro sono stati rilevanti. La diminuzione della spesa per interessi, legata all'ingresso nella moneta unica, invece di indurci a buone abitudini ha finito per abbassare il livello di attenzione. La perdita di competitività legata all'aumento dei costi ha provocato una diminuzione dei margini di profitto delle imprese, quindi si è investito meno e si è innescato un circolo vizioso. Adesso, però, la domanda è un'altra».

E cioè?

«Quello che dobbiamo chiederci è se possiamo crescere nell'euro. E la mia risposta è sì. Anzi, in realtà già lo stiamo facendo, visto che gli ultimi dati sono positivi. Stiamo recuperando competitività. In Germania il costo del lavoro sale del 2%, da noi dello 0,5%. Il dato negativo è che Spagna e Portogallo stanno recuperando più di noi e che ancora dobbiamo aggredire i peccati capitali della nostra economia: i costi della burocrazia, evasione fiscale, la lentezza della giustizia, il costo del lavoro, un eccesso di spesa pubblica».

Lei a tagliarla ci ha provato, ma il suo incarico non è durato molto...

«Tenga presente una cosa: se disegniamo un grafico con l'andamento della spesa, vediamo che dal 2000 al 2008 è in crescita ripida, dal 2008 in poi diventa quasi piatto. Dal 2008 a oggi in Italia la spesa è cresciuta complessivamente del 4%, in Francia di tre volte tanto. Qualche cosa si è fatto, ma bisogna fare di più. Ed è difficile perché tagliare fa male».

Che cosa intende?

«Voglio dire che anche gli sprechi sono sempre soldi che qualcuno prende. Se individuiamo un ufficio pubblico dove lavorano dieci persone e concludiamo che ne bastano sei, il problema è trovare una soluzione intelligente per quei quattro che non servono. Nella pubblica amministrazione si è bloccato per anni il turnover e questo ha avuto come conseguenza quella di provocare un invecchiamento complessivo medio dei dipendenti pubblici. Non è positivo, ma sempre meglio che continuare ad assumere anche se non ce n'è bisogno. E le cose che si possono fare sono molte. Pensi per esempio ai servizi di sicurezza che nei tribunali molto spesso sono affidati a guardie giurate private».

Il problema è la volontà di fare scelte politiche.

«Quando si è detto che nella pubblica amministrazione c'erano 85mila persone di troppo, io ho detto sediamoci e discutiamone, ma la politica ha ovviamente iniziato a preoccuparsi. Ed è lo stesso atteggiamento di chi dichiara che certi settori di spesa non sono aggredibili. Il mio successore Yoram Gutgeld è andato in Parlamento e ha detto subito che la spesa pensionistica non sarebbe stata toccata. Io penso che senza essere fanatici la possibilità di fare qualche cosa c'era. Pr esempio avevo detto, ricalcoliamo le pensioni sulla base dei contributi effettivamente versati e poi facciamo un ragionamento».

Oggi però più che di tagli si parla dei deficit aggiuntivi che si vogliono strappare all'Europa. Sembrano la panacea di tutti mali...

«La richiesta di maggior deficit è diventata quasi un gioco. Ma se ci si pensa è una specie di corto circuito. Finanziamo in deficit perfino la diminuzione delle tasse e cerchiamo di convincere l'Unione europea a farci fare più debiti. Ma poi chiediamo i soldi agli italiani perché i due terzi dei titoli del debito pubblico sono acquistati dagli stessi italiani. In pratica chiediamo ad alcuni di rinunciare a consumare o investire per pagare la diminuzione delle tasse di altri. Alla fine il meccanismo non sta in piedi».

Le elezioni si avvicinano e i partiti fanno a gara a presentare programmi che però si scontrano con la realtà dei bilanci pubblici. Che cosa ne pensa?

«Preferisco proprio non pensarci. Personalmente non ho ancora deciso chi voterò, ma di sicuro con l'Osservatorio faremo quello che nel mondo anglosassone si chiama fact checking: metteremo alla prova dei fatti i programmi economici delle forze politiche per fare un po' di chiarezza. Perché poi, chiunque vincerà si troverà di fronte ai problemi non risolti, le riforme da fare, la stabilizzazione del debito, la scarsa crescita».

Oggi l'Italia di che cosa deve avere più paura?

«Di uno choc esterno che mandi ancora una volta in recessione l'economia prima che il nostro Paese sia riuscito a sistemare il problema del debito. E purtroppo, è fatale, le recessioni, con un intervallo più o meno lungo, avvengono. È stato così nel 2001, nel 2008, e per quanto riguarda l'Europa anche tra il 2011 e il 2012. La contrazione del prodotto interno farebbe alzare di nuovo il rapporto con il debito e finiremmo di nuovo in difficoltà. Ancora una volta dovremmo sperare nell'intervento della Bce, ma tra due anni non sarà più Mario Draghi a guidare la Banca centrale».

Per i nostri bilanci pubblici sarà già un problema fare fronte al prossimo

aumento dei tassi di interesse.

«Un aumento graduale dei tassi non mi spaventa. E la fine del quantitative easing non dovrebbe essere uno choc. Per come siamo messi sono gli eventi imprevisti a doverci spaventare».

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