Intervista a Indro. Con l’intelligenza artificiale torna a graffiare tutti

L’intelligenza artificiale ci ha aiutato a rintracciare con rapidità alcune delle frasi scritte o pronunciate da Montanelli sui più diversi argomenti. Un modo per far "rivivere" la sua intelligenza naturale. Le sue idee restano attualissime

Intervista a Indro. Con l’intelligenza artificiale torna a graffiare tutti

Direttore Montanelli, ecco, temo subito di iniziare con una lesa maestà resuscitandola tramite l’intelligenza artificiale...

«Se noi abbiamo un diritto alla vita, abbiamo anche un diritto alla morte».

Speravo l’avrebbe presa meglio, non volevo disturbare...

«Gli uomini sono buoni con i morti quasi quanto sono cattivi con i vivi».

Allora la facciamo questa intervista?

«L’unico padrone del giornalista è il lettore. E quando lo si ha dalla propria parte, non c’è potere che possa imbavagliarti».

Lo prendo come un sì. Cosa pensa degli italiani come popolo?

«Se tu mi dici cosa sarà il domani per gli italiani, forse sarà un domani brillante, brillantissimo, ma per gli italiani, non per l’Italia, perché gli italiani sono i meglio qualificati a entrare in un calderone multinazionale. Hanno dei mestieri in cui sono insuperabili: i migliori sarti, i migliori calzolai, i migliori direttori d’albergo, i migliori cuochi, non c’è il minimo dubbio. Nei mestieri servili siamo imbattibili».

Non è un po’ pessimista come risposta?

«Per fortuna che il ridicolo non uccide perché altrimenti in Italia ci sarebbe una strage».

Ma un consiglio per i giovani?

«L’unico consiglio che mi sento di dare – e che regolarmente do – ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne. Quella che s’ingaggia ogni mattina, davanti allo specchio».

Lei direttore magari non se lo immagina ma noi nel 2024 stiamo ancora molto a parlare di fascismo e antifascismo...

«Noi, di fascismi ne conosciamo e ne esecriamo uno solo: quello di chi appiccica questa etichetta a qualunque idea o opinione che non corrisponde alle sue. Di questo giuoco, la nostra sinistra è spesso maestra. Non per nulla lo stesso Mussolini veniva dai suoi ranghi».

Lei ha ragione, ma faccio l’avvocato del diavolo. Il fascismo, però, per l’Italia, e lei lo sa, è stato un disastro politico, è normale che la nostra democrazia lo tema?

«Il fascismo privilegiava i somari in divisa. La democrazia privilegia quelli in tuta. In Italia, i regimi politici passano. I somari restano».

Ah, magari non la stupirà, ma siamo ancora qui a cercare di far quadrare la Costituzione. Che per qualcuno è la più bella del mondo e per qualcun altro ha un sacco di buchi.

«Questa Costituzione porta male gli anni da quando aveva un giorno, perché fu subito chiaro quali erano i suoi difetti. Del resto furono anche denunciati da uomini come, per esempio, Calamandrei, comeMario Paggi. Ma aggiungo che la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile».

Ma direttore, insomma, non ce ne fa passare una... I cittadini italiani ogni tanto saranno anche un po’ vittime di quello che gli casca sulla testa. O no?

«Strano Paese il nostro. Colpisce i venditori di sigarette, ma premia i venditori di fumo... Noi italiani non crediamo in nulla e tanto meno nelle virtù che qualcuno ci attribuisce. Ma tra di esse ce n’è una nella quale riponiamo una fede incorruttibile: quella della nostra capacità di corrompere tutto».

Va bene direttore, mi sembra che abbia mantenuto l’attitudine corrosiva dei tuoi «Controcorrente»... Ma come cosa personale chiedo, anche perché le ho fatto un bel po’ di domande, sarà contento che nel cinquantesimo siamo venuti ad intervistarla? O no?

«Questo è un Paese senza memoria, dove l’unica cosa da fare è cercare di non morire perché chi muore (fatta salva la solita mezza dozzina di sacre mummie: Dante, Petrarca, eccetera, che nessuno legge) è morto per sempre. È un Paese senza passato, il nostro, che non accumula né ricorda nulla».

È per questo che quando si è trovato nei guai ha cercato di morire in piedi?

«Quella mattina (2 giugno 1977 ndr) sono in due nei giardini di piazza Cavour, a Milano. Uno mi spara alle gambe. L’altro mi tiene nel mirino della sua pistola. I primi due – tre proiettili entrano nelle mie lunghe zampe di pollo. Non devastano né ossa né arterie. Ma sarebbero sufficienti per far cadere a terra qualsiasi cristiano. In quegli attimi ricordo la promessa che avevo fatto aMussolini, e a me stesso, quando, bambino, mi ritrovai intruppato nei balilla: “Se devi morire, muori in piedi!”. Davanti a questi vigliacchi che non hanno il coraggio di affrontarmi in faccia, penso, non posso morire in ginocchio. Emi aggrappo alla cancellata dei giardini. Non sto in piedi sulle gambe, ma mi reggo dritto con la forza delle braccia. E quello continua a sparare e a centrare le mie zampe di pollo. Se mi fossi accasciato, se mi fossi inginocchiato davanti a lui, a quell’ora sarei morto».

In quei giardini adesso c’è una sua statua, spesso la imbrattano a secchiate di vernice, a partire dalla famosa questione di Destà. Se lei non volesse riparlare di quella vicenda lo capirei.

«Eccoti in sintesi la mia storia, la storia di una illusione e di una delusione, che furono un po’ quelle di quasi tutta la mia generazione. La vicenda coniugale della sposa abissina rientra nell’illusione. Io volevo diventare un abissino, e lo feci adeguandomi ai costumi matrimoniali locali. Cioè comprai (500 talleri) la mia Destà (così si chiamava) dal padre, cui partendo la restituii con un po’ di dote (tutti i miei risparmi) che le consentirono di trovare subito un altro marito nella persona di un mio graduato (bulukbashi) di nome Gheremedin, che al suo primo nato - ma nato due anni dopo il mio rimpatrio - dette il nome mio».

Però in molti questa non gliela perdonano...

«Oggi io ripenso a questo mio passato con nostalgia non delle cose che feci, ma dell’entusiasmo con cui le feci, e comunque senza

vergogna. Mi feci complice di un errore, ma lo commisi in buona fede e senza trarne alcun vantaggio. Anche tu, ragazzo mio, commetterai i tuoi bravi errori. Ti auguro di poterci un giorno ripensare come me, senza arrossirne».

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