Il primo giapponese della Serie A era un artista

Nel 1994 il massimo campionato si arricchisce del suo primo calciatore nipponico: a Genova arriva Kazuyoshi Miura

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Ci sono storie che non dipendono strettamente dalle vittorie, ma dal suono che producono dentro, quando le riascolti. Storie come quella di Kazuyoshi Miura, il primo giapponese della Serie A, atterrato a Genova nel 1994 con l’eleganza discreta di un samurai fuori tempo massimo. Un alieno in maglia rossoblù, venuto da un altro mondo per danzare sul prato del Ferraris, tra l’indifferenza di chi aspettava un colpo casalingo e l’incredulità di chi non aveva la minima idea di come si pronunciasse il suo nome.

A Genova, di solito, si fischia con eleganza. Ma quando Kazu arrivò, c’era poco da fischiare: si annusava piuttosto il sospetto. In fondo, chi era quel giapponese con i capelli impomatati e lo sguardo da attore da soap opera? Uno che palleggiava con grazia orientale e parlava poco, anzi nulla, ma che al primo controllo palla faceva capire di sapere il fatto suo. “King Kazu” lo chiamavano in patria, eroe pop alla stregua di un manga vivente, primo calciatore nipponico a sfondare in Brasile, patria del futebol, dove era cresciuto inseguendo sogni e dribbling a Santos ed in un mucchio di altre squadre.

Era un Giappone ancora acerbo, quello dei primi anni '90, in cui il calcio faticava ad emergere. Kazu però rappresentava il volto nuovo, la speranza che avanzava, la promessa espressa che anche dal Sol Levante potesse sbocciare un fantasista in grado di ammansire il pallone come i più grandi. In Italia giunse da semisconosciuto, portato dal Genoa quasi più per un’operazione commerciale che per autentica convinzione tecnica. C’era curiosità, certo, ma anche molto scetticismo.

Eppure, a modo suo, Miura lasciò il segno. Memorabile il gol nel derby contro la Sampdoria: una rete sporca, di rapina, ma intrisa di simbologia. Il primo – e unico – gol del giapponese in Serie A. E se a Genova lo ricordano più per il marketing che per le magie - del resto mise assieme ventidue apparizioni - quel momento resta inciso nella memoria rossoblù come un frammento di poesia urbana: la corsa sotto la Sud, il pugno alzato, i compagni che lo sommergono come se avesse deciso la finale di Coppa dei Campioni.

In campo, Kazu era un esteta. Movimenti composti, tocco educato, uno stile più da teatro che da Serie A anni ’90, dove regnava ancora la rudimentale legge dell’uomo su uomo, delle marcature legnose, delle ginocchia dolenti. Lì, in quel contesto brutale, sembrava una farfalla tra i tori, un fiore di ciliegio spuntato in una selva urticante.

Durò poco, forse troppo poco. Una sola stagione. Poi via, di nuovo verso l’Asia, verso il Giappone che intanto stava scoprendo la J-League e un amore collettivo per il calcio. Ma quella parentesi italiana restò, come restano le cose che non ti aspetti. Come un sogno sbiadito che però, ogni tanto, torna a bussare.

Perché Miura non si è mai fermato. Ha continuato a giocare, sempre. Fino ai 50, poi ai 55, poi ai 57 anni. Un Highlander del pallone, una figura mitologica che attraversava i decenni con la stessa testardaggine con cui aveva solcato il Pacifico. In fondo, il calcio per lui non era solo un lavoro: era vocazione, missione, testimone da passare. Molti dei suoi successori, dal nostro campionato alla Premier League, devono essere nati da quella palla sporcata nel derby della Lanterna nel ‘94.

Kazu Miura non è stato un fuoriclasse. Non ha sollevato Palloni d’Oro, non ha segnato caterve di gol in Serie A. Ma è stato un simbolo, un’apripista, un gesto di coraggio nel calcio che ancora non conosceva globalizzazione. E per chi guarda al pallone con malcelata nostalgia, più che come algoritmo, questo vale più questo di ogni freddo ammasso di statistiche.

Certe storie non finiscono, cantava qualcuno. Fanno giri immensi e poi ritornano.

E ogni tanto, anche da un angolo dimenticato del Ferraris, si alza l’eco lontano di un urlo: “Kaaaazuuuu!”, come se la nostalgia si potesse battere dal dischetto. E magari, ogni tanto, si potesse anche segnarla.

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