Quanto sei triste Roma quando piove. E perfino i politici non si vedono più

Un sontuoso e profondo racconto di Giovanni Arpino pubblicato il 25 marzo 1980

Quanto sei triste Roma quando piove. E perfino i politici non si vedono più

Piove, i grandi monumenti sembrano ossari abbandonati, la gente cerca riparo sotto le tende dei negozi, nelle trattorie si mangia con il paltò sulle spalle e tutti brontolano: bastano due gocce d’acqua, bastano pochi gradi in meno di temperatura e questa capitale mediterranea subito balbetta, mostra i lividi.

Quanto sei triste, Roma: ecco un versetto per l’unica canzone che mai verrà composta e cantata. I politici vivono barricati nei loro fortilizi, protetti dallegendarmerie e dagli usci corazzati. Nonli si vede più nei ristoranti, raramente a teatro, l’impegno dei loro giochi stressanti («giriamo a vuoto come i criceti in gabbia, alla sera siamo sfiniti da fatiche inutili»,mi disse una volta Valerio Zanone liberale) li isola dalla metropoli, dal Paese, dal mondo. A tutti, paiono scacchisti impegnatiin unalotta terribile, tra «regine» e «cavalli» da spostare, e però ignari di sedere su un vulcano.

«E così ci avemo puro la Nazzionale dei carcerati», digrigna un barman. Ma la Regione ha già stanziato quattro miliardi per la promozione delle attività culturali. Alcuni quotidiani hanno dedicato una pagina intera a questo stanziamento, inneggiando «alla cultura di tutti». Ma che ne faranno dei soldi? Laboratori e ancora laboratori: musicali a Tarquinia, teatrali da Rieti a Frosinone. Nuovi crogiuoli di esperimenti, di illusioni sceniche e comportamentistiche, mentre già Roma gronda teatri e teatrini e cantine e caffè con spettacolo che si mangiano la coda (e le penne e le interiora) gli uni con gli altri. Intanto il sindaco ha dovuto quasi slogarsi la spallanel «braccio diferro» coi netturbini, che avevano lasciato mille tonnellate di rifiuti a marcire per le strade.

«So’ pochi, so’ quasi nessuno», si lamenta il venditore di santini e madonne in gesso poco lontano dalla Fontana di Trevi. E indica gli scarsi giapponesi incellophanati. Negli anni andati, a marzo, sciamavano a migliaia. V’è timore per il turismo, vi è paura perle scorribande deigiovanissimi criminali di periferia, si prova vergogna per quanto accade - tra furti, prostituzione di ogni genere, risse ed imbrogli - intorno alla Stazione Termini.

Roma non ride più. Insanguinata, traumatizzata, si accorge di non possedere «testa» e quindi di non poter gonfiare il petto in soprassalti di tipico orgoglio capitolino. La gente si chiude in casa, e nelle case fa freddo. I gruppi più famosi, di intellettuali, teatranti, di politici, di giornalisti, risultano smembrati. «Sto’ vecchio ronzino che batte l’unghia sui serci, me pareme», sussurra unamico sogguardandoil cavalloimmobile ela carrozza rappezzata all’angolo di un vicolo. Se cancelli dagli occhi le immagini più illustri dell’oleografia romana, ti sembra di essere in un quartiere di Buenos Aires, tra odori indefinibili, grigi su grigi che si stingono, un’aria diabbandoni e di struggente vecchiaia.

C’è una pena lunga, che parte dallo sguardo e arriva fin nel più profondo delle vene, a camminare per la Roma d’oggi. Grandi nuvole sgomitano in cielo, forse un po’ di sole verrà a rinfrancare gli animi, ma intanto scorgi piaghe, la Colonna Antonina accerchiata da una reticella verdognola, le piramidi di spazzatura, il piccolo corteo di protesta qua o là, gli sgorbi sui muri che bestemmiano contro tutti, altri cortei ciondolanti, poliziotti grassi e baffuti e dall’occhio cupo: si è come in un gioco assurdo, senza vie d’uscita, che non prevede vincitori né vinti ma solo la condanna a ripetere in eterno le identiche mosse. NeppureBorges riuscirebbe a codificarne le regole.

«Magnate, magnate, che domani non si sa», invita l’oste girando tra i tavoli, sornione. E crede di esserefurbo, simpatico, ma la sua voce ha la raucedine della fine del mondo, è grottesca e tuttavia minacciosa. La gente si china sulle scodelle di trippa, sull’insalata profumatissima detta «misticanza», sui carciofi, e tenta di ridere, ma emette solo gorgoglii, rigira tra ganasce e boccone antiche sillabe che non suonano più sardoniche, avvampanti, bensì sorde, come l’eco d’una gioia che fu terribilmente vitale, ed oggi è sepolta, vibra sottoterra, nei visceri e non in gola.

Ilmondo intero non ha più partorito grandi anime in grado di capire questa Roma: non c’è uno Stendhal, un Goethe e neppure un Gadda, che la esplorò con occhio opaco. Sfinita dalle sue immense gravidanze - e cioè dalle periferie che si perdono nella polvere e nella rabbia - la capitale è ormai una creatura vecchissima che non riconosce tutti i suoi figli, li palpeggia alla cieca, li cede all’avventura. Vi sono cento, mille Roma nella Roma che fu, ma la matrice da cui nacquero è un guscio avvelenato,impaurito, solitario. I suoi più celebri testimoni, o per film o per romanzi o per saggi, hanno piegato la schiena davantiad unafilosofia dell’abbandono. E i giovani nulla sanno, se non la fame che gli morde dentro: ma la fame, sommata all’ignoranza, produce mostri, velleità, programmi stentorei, non aiuta a risalire la china.

Ci sono vuoti immensi nel tessuto urbano, di notte. Piazze e viali deserti, vicoli che paiono gole di lupo. La gente,al termine dell’ultimo spettacolo cinematografico, già abbastanza negletto, schizza via sulle automobili, e dà l’idea di un termitaio nerastro, impazzito. Dopo pochi minuti, altre piazze e piazzali, altri corsi, piombano in un silenzio tombale.

«E io ci ho provato a tenerme un cane lupo sul sedile, ma la legge non lo permette, accidentaccio anche a lei», confida un tassista. Se vuoi salire sul taxi, a certe ore, devi prima spiegar bene la destinazione,metterti in luce, e non di rado il tassista si nega. Se avesse il cane lupo, rischierebbe.

Friggono invece gliapparecchi televisivi, in una giungla dell’etere che allontanerà di certo gli Ufo di buona volontà. Meglio mangiar tardi e poi addormentarsi con l’ultimo film di una telelibera, tutto è meglio anziché uscire, e proprioin una città che è vissuta suimarciapiedi, sulle panchine, seduta sui bordi dellefontane. Poliziottiinmotocicletta sfrecciano via, neri, ululando conle sirene, comein unfilm di Truffaut. Il selciato è viscido sotto le scarpe.

Il cascare delle saracinesche ha il suono di rugginose, artigianali ghigliottine.

Ci si puòfermare, con il cervello vuoto, davanti alle acque lattiginose della Fontana di Trevi, dove ondeggiòla popputafelicità di Anita Ekberg, e sogguardare la cascata, i mostri marmorei che la sputano ininterrottamente. Sì, ha ragione John Berryman, poeta americano, evocabile qui ed ora, e che disse nei suoi canti: «Lui fissò la rovina. La rovina ricambiò lo sguardo».

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