Il Giornale (ma ancora non si chiamava così) è nato, o almeno è stato concepito, il 15 agosto dell’anno 1973 in località «Prato del dio silvano», in quel di Cortina d’Ampezzo. Dovete sapere che è consuetudine, fra gli habituées della ridente località di turismo e soggiorno, celebrare il Ferragosto con un picnic sullo spiazzo di velluto verde a mezz’ora, poco più, da Cortina, chiamato, appunto, «Prato del dio Silvano».
Quel 1973 Montanelli invitò al rito di mezzo agosto Guido Piovene, Enzo Bettiza e Gianni Granzotto. Accoccolati intorno a una tovaglia a quadri bianchi e rossi, fra porzioni di pollo in gelatina, viennesi, uova sode, fette di salame e una ragionevole quantità di bottiglie di Venegazzù, essi, avendo lasciato a casa il buonsenso, si lasciarono convincere e sposarono il progetto di Indro, concludendo: «Ebbene sì, facciamolo questo giornale».
Non è così bizzarro che un quotidiano nasca durante un picnic. I picnic possono essere maliziosi e molte cose far nascere, bebè compresi. La cosa straordinaria è che una volta decisi a farlo, pur senza il becco d’un quattrino, privi delle elementari competenze di «macchina», figuriamoci di quelle necessarie per creare dal nulla un giornale, il giornale lo fecero, questo che state leggendo ora.
Tornati dalle vacanze, gli audaci si ritrovarono a Milano per affrontare un piano operativo le cui dimensioni avrebbero fatto vacillare animi più responsabili: quando credettero d’aver previsto tutto, ed era la fine del 1973, avevano previsto sì e no il cinquanta percento di quel che occorreva. Ma poiché lo ignoravano, non se ne fecero un cruccio... Fu scelto come base e luogo d’incontro dei «fondatori» il Grand Hotel et de Milan, in via Manzoni, il «Milan», come veniva chiamato. Le sette bellezze d’albergo, ma non crediate che i fondatori cominciassero a scialacquare i danari destinati al Giornale. A parte il fatto che i danari ancora non c’erano, il «Milan» venne scelto - e pagato di tasca propria - perché nessun altro edificio rappresentava in modo così esplicito la Milano rispettabile che non rinuncia a certe eleganze.
Il reclutamento fu la cosa più facile: chi bussava alla porta di Montanelli aveva già i requisiti per appartenere al Giornale. Col clima che c’era nel ’73, anni di piombo ancorché Capanna li consideri «formidabili», professarsi eretici non era una cosetta da poco. Abbandonare solide testate, affermate carriere, stipendi garantiti per l’azzardo del Giornale, sapendo di mettersi contro l’intellighenzia, tutta la nomenklatura, di attirarsi i fulmini dei comunisti, dei compagni di strada dei comunisti, dei salotti radical chic, della borghesia pavida che si era gettata a sinistra, di essere definiti «sporco reazionario» e «fascista» dal gregge che belava al comando di Botteghe Oscure, non era propriamente uno scherzo.
Si era a Natale e i tempi erano maturi per installarsi in una vera e propria redazione. La scelta si imponeva da sé: avendo deciso di affidarci alla tipografia della Same, in piazza Cavour, gli uffici non potevano trovarsi che in quel palazzo. Purtroppo non erano disponibili che quattro stanze più uno sgabuzzino e fu così che il Giornale venne preparato ed uscì in edicola con parte della redazione nell’edificio della Same, parte nello stabile di fronte, quello che allora ospitava il cinema Cavour, parte in via Manzoni 44.
Maggior fortuna la si ebbe con la redazione romana. Fu Cesare Zappulli a scovarla in piazza di Pietra, a due passi dal Palazzo. Un appartamento, come dire?, particolare. Per essere bello era bello, ma trasudava lusso, calma e voluttà, attributi delle alcove che evocano palpiti di lussuria piuttosto che frenesie giornalistiche. Il tappeto, nel corridoio d’ingresso, riproduceva il manto della tigre, per dire. Dentro, la moquette bianca era così alta e spessa che ci volevano le racchette da neve per camminarvi sopra. E specchi, specchi ovunque, perfino sul soffitto di quella che in origine era la camera da letto, ambiente che Zappulli pretese per sé, proibendo qualsiasi cambiamento che ne modificasse l’impronta peccaminosa.
Di guai ne avevamo fin troppi, di problemi anche, ma qualcosa faceva da scacciapensieri permettendoci di superare gli ostacoli con un ottimismo e una baldanza che sorprese noi per primi. Quel rimedio era rappresentato, oltre che dallo spirito di appartenenza a una congrega eretica, dalla sfida.
Lo spiegò molto bene Montanelli, nel suo fondo di esordio: «Non ci contentiamo di dar vita a un giornale: ce ne sono fin troppi. Vogliamo creare o ricreare un certo costume giornalistico di serietà e di rigore». Era quella la sfida: andare contro corrente, cantare da solisti e non nel coro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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