"A 62 anni non cambierei la mia vita con nessun'altra"

A Campovolo centomila persone per la ripartenza del rocker Ligabue: "La mia riflessione durante il Covid"

"A 62 anni non cambierei la mia vita con nessun'altra"

Reggio Emilia. Mai visti tre anni senza Ligabue sul palco.

«Il Covid ha avuto strani effetti su ciascuno di noi».

E su di lei?

«Non avevo mai provato la sensazione di chi non ha la più pallida idea di che cosa stia per accedere. E quando non si capisce da che parte arriverà il futuro, di solito le reazioni sono due: o ti guardi di fianco o ti guardi indietro. Io mi sono guardato indietro».

E ha scritto la sua autobiografia.

«Ho srotolato 62 anni di vita come se scorresse passo dopo passo».

Anche ieri sera lo ha fatto nella neonata Rcf Arena di Campovolo, a pochi chilometri da Reggio Emilia e ancora meno dalla sua Correggio, con 103mila biglietti venduti per l'esattezza. Un bel colpo d'occhio, siamo sinceri, nonostante nel pomeriggio l'asfalto fosse incandescente come le dune nel Sahara.

In tre ore Luciano Ligabue ha snocciolato il proprio repertorio, dall'ultimo singolo Non cambierei questa vita con nessun'altra fino a Sogni di rock'n'roll che ha chiuso il concerto con il protagonista in passerella a prendersi gli ultimi applausi. Come si diceva 30 anni fa, quando iniziava a farsi conoscere anche al di là della Via Emilia, Ligabue ha «ballato sul mondo», sul suo mondo che è fatto di tradizioni e di sapori di casa, di musica come una volta e di passioni che non hanno tempo perché chi fa rock con basso, chitarra e giubbotto di pelle avrà sempre la stessa attitudine anche se sembra vintage o deja vu. Si capisce anche dagli ospiti che Ligabue ha voluto con sé sul palco: sono tutti i riflessi della sua «way of life», del suo modo di intendere la vita. Loredana Bertè arriva in Ho smesso di tacere. Eugenio Finardi in Musica ribelle. Gazzelle in L'amore conta perché «avevo sentito una sua versione al piano di questo brano e mi era piaciuta». Elisa è ovviamente nella fortissima A modo tuo. E De Gregori canta con Ligabue Buonanotte all'Italia nell'incontro più riuscito. Più di quello con Mauro Pagani ne Il mio nome è mai più (assente l'infortunato Pelù, caduto l'altra sera sul palco dell'Alcatraz a Milano).

Ma lo spettacolo è anche in platea dove un pubblico che arriva da tutta Italia, isole comprese, parla davvero la stessa lingua nei gesti, nella mimica, persino nell'abbigliamento. È il «popolo di Ligabue», quello che si ferma un attimo prima degli eccessi e canta tutto a memoria per tre ore, dicesi tre ore, finché si spengono le luci e finisce anche il quarto Campovolo di Ligabue.

Qual è l'effetto che fa un concerto così?

«È arrivato dopo la sosta obbligata. Nei momenti di pausa dovuti al lockdown, mi ero accorto che nel corso della mia carriera avevo pubblicato troppo e avevo caricato troppo a testa bassa. Questa è la ripartenza, che poi proseguirà con i cinque concerti all'Arena di Verona a settembre e le quattro date in Europa a ottobre».

Uno dei momenti più intensi è stato «Buonanotte all'Italia» in duetto con Francesco De Gregori.

«Invecchiando divento sempre più sentimentale. Quello è un brano che raccoglie le mie riflessioni di amore per l'Italia ma anche il disprezzo che provo per le cose che non vanno. In fondo, questo brano e il disco Made in Italy descrivono questo stato d'animo».

A metà concerto c'è «Il mio nome è mai più», incisa nel 1999 con Piero Pelù e con Jovanotti, che ha detto: «Allora con il ricavato abbiamo potuto costruire tre ospedali, ma oggi non si vendono più dischi e quindi un'operazione del genere sarebbe molto meno utile».

«Nel libretto di quel cd singolo c'era la mappa di tutte le guerra che in quel momento erano in atto nel mondo. E noi cantammo quel brano con un totale coinvolgimento sentimentale, lo stesso che ho oggi quando leggo che la spesa mondiale per le armi non è mai stata così alta. La nostra tanto decantata civilizzazione è in realtà un'involuzione: con il nostro armarci siamo una bomba che si innesca sempre di più. Un'operazione come Il mio nome è mai più si potrebbe fare anche oggi? Penso di sì, anche se senza la vendita del supporto fisico non ci potrebbero essere gli stessi ricavi. Ciò che conta, alla fine, è il messaggio che lanci».

E quello della Kalush Orchestra? Hanno venduto all'asta per 900mila euro il premio dell'Eurovision e, con il ricavato, hanno comprato un drone per l'esercito ucraino.

«Ogni scelta è rispettabile, non mi sento di giudicare».

Ha iniziato il concerto con «Non cambierei questa vita con nessun'altra».

«Ho scritto quel brano dopo aver finito il mio ultimo libro e lo penso davvero».

Però c'è stato un momento nel quale avrebbe scambiato la propria vita con quella di qualcun altro?

«È una conclusione alla quale sono arrivato dopo aver capito che spesso vediamo le vite degli altri, le giudichiamo perfette ma poi in realtà non lo sono».

A metà concerto ha voluto Eugenio Finardi per «Musica ribelle».

«Dopo che è uscito il mio disco d'esordio a inizio anni Novanta, uno dei miei primi concerti fuori da Correggio fu con lui a Milano. Io e la band suonavamo prima che lui iniziasse il proprio show. Aveva convinto Angelo Carrara a produrmi e quindi tra di noi c'era una sorta di sintonia. Di certo quel brano negli anni Settanta era una sorta di chiamata alle armi, un invito a svegliarsi e a darsi da fare».

Oggi, quasi mezzo secolo dopo quel brano di Finardi, la musica è sempre meno ribelle e sempre meno condivisa.

Perciò i concerti come quello di ieri sera a Campovolo sono la fotografia di un gigantesco rituale collettivo che potrebbe diventare sempre meno diffuso. Non perché il pubblico abbia cambiato idea. Ma perché sono sempre meno gli artisti che possono vendere centomila biglietti per un solo concerto.

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