"A 80 anni vi racconto la mia vita dalle piattole alla Muraglia cinese"

L'autobiografia di Roby Facchinetti: "Negli anni '70 la sinistra non perdonava il successo. Ma i Pooh sono sempre rimasti lontani dalla politica"

"A 80 anni vi racconto la mia vita dalle piattole alla Muraglia cinese"
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Ma davvero?

«Davvero cosa?"

Roby Facchinetti ha 80 anni.

"Sì dicono così, io però sono suo figlio".

Ma no, i Pooh ci sono dal 1966.

"Ero a Bergamo con i Monelli, ci chiedono se avremmo voluto suonare a un veglio al Grand Hotel di Rimini. Ma certo. Partiamo con una 500 e una Alfa Romeo. Poi allo Sporting Club di Bologna mi hanno offerto di entrare nei Pooh".

Cinquantotto anni dopo, suonate ancora.

"Però abbiamo scelto di fare un tour in posti favolosi come le Terme di Caracalla».

Manco bisogna elencarle perché da Piccola Katy a Pensiero le conoscono tutti, ma i Pooh hanno scritto alcune delle più belle canzoni della storia musicale italiana e, come si è visto qui al Salone del Libro, anche adesso hanno un seguito di fan che li considera davvero di famiglia. «Dopotutto sono nato ad Astino, vicino a Bergamo, una vera comunità di 7 o 8 famiglie, so quanto conti fare famiglia» dice Roby.

E nella sua nuova autobiografia Che spettacolo è la vita (Sperling & Kupfer) c'è questo senso di collettività che si è riversato in ogni brano dei Pooh. Che restano un caso più unico che raro. Esplosi nell'epoca della canzone politica o della canzonetta apolitica, sono riusciti a resistere pur essendo apolitici e non facendo canzonette. Anzi, con brani come Pierre sono stati i primi ad affrontare temi decisivi come l'emarginazione e l'omosessualità (nel 1977 era davvero rottura, altro che oggi). Insomma, erano super partes. Perciò oggi sono ancora attuali e - basta vedere su TikTok - canzoni come Piccola Katy le conoscono anche i bambini.

Perché i Pooh sono sempre rimasti lontano dalla politica?

"Non abbiamo mai voluto abbinarci alla politica e abbiamo fatto bene".

Perché?

"Intanto perché noi facciamo musica e non comizi elettorali. E poi allora chi aveva successo non poteva essere di sinistra".

Dove è nato?

"Io vengo da una famiglia di operai e la mia era una famiglia matriarcale. Mio padre lavorava alla Dalmine, era un operaio. Il mio era un ambiente di poche parole, ma il contesto era di destra. E ho vissuto cosa significasse allora la politica".

Per esempio?

"I Pooh erano nella stessa sera dei Led Zeppelin al Vigorelli di Milano (il 5 luglio del 1971, ndr). Ho visto tirare le bombe molotov, ho visto migliaia di persone in fuga".

Robert Plant dei Led Zeppelin fu traumatizzato.

"Io quella sera ho capito per la prima volta come fosse la sensazione di panico".

Due anni dopo se ne va Riccardo Fogli, che adesso è di nuovo nella band.

"Avevamo cinque concerti al Sistina di Roma. Lui era nel pieno della storia con Patty Pravo, che era ovviamente molto paparazzata. Gli avevo chiesto di provare a evitare che lei venisse al Sistina per non catalizzare tutta l'attenzione sulla storia. Gli dicevo: Stai buttando via la schedina del 13, cerchiamo di restare concentrati sui Pooh".

Era il momento del grande salto, o sì o no.

"Lui sapeva bene che cosa avevamo passato, avevamo condiviso stanze miserabili nelle pensioni da poche lire con le piattole sul letto. Sa che cosa sono le piattole? Sono fastidiose".

Risultato?

"Alla prima serata lei era in prima fila e poi tutto è venuto di conseguenza".

Da allora i Pooh sono comunque rimasti in cima. Che cosa è successo sulla Muraglia Cinese?

"Ero lì davanti all'immensità e ho intonato Non restare chiuso qui.... Poco più in là qualcuno ha risposto: Pensieroooo.... È una gag che ho fatto ovunque, anche negli autogrill".

E ha sempre funzionato?

"Sempre".

Quale è il rimpianto più grande?

"Forse di non aver partecipato all'Eurovision dopo la vittoria di Sanremo con Uomini soli. Al nostro posto ci andò Toto Cutugno, che ci ha sempre ringraziato".

Però all'estero i Pooh sono andati poco.

"Nei primi anni '70 ci avevano proposto di andarci e restare per due anni e provare a costruire qualcosa".

E voi?

"Abbiamo detto di no, non volevamo abbandonare il certo per l'incerto".

E ora?

"Ora se accendi la radio in Spagna o in Francia, capisci subito dove sei. In Italia la musica ha perso identità, tutto è troppo omogeneo e le voci sono interscambiabili".

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