Addio a Malerba, grande inventore di miseri eroi che rovesciano il mondo

Anni fa, Luigi Malerba dichiarava esplicitamente che ogni suo libro nasceva da una indignazione. Indignarsi è, notoriamente, un gesto forte: nei casi estremi, io posso indignarmi contro il mondo, ma anche contro me stesso che del mondo sono parte. A quel punto, arriverò a compiere un gesto liberatorio, salvifico e tenterò di fabbricarmi ex novo un antimondo mentale. Certo, mi dovrò affidare agli statuti e ai magisteri dell’immaginazione. Dovrò confidare in un mondo che non esiste, del possibile.
Luigi Malerba, per l’anagrafe Luigi Bonardi (l’esigenza di darsi un nom de plume, forse, fa parte della tensione a rifondare ogni cosa a partire dalle origini profonde, da se stessi...), l’ha fatto. Meglio: lo ha magistralmente fatto fare ai personaggi dei suoi libri. Da grande scrittore che ha visto nella letteratura lo strumento per costruire contro-immagini della realtà e raggiungere universi obliqui, rovesciati, bizzarri e sempre lontani da quel senso comune che detestava. Memorabili le sue creature, tutte naviganti già ben «oltre l’assurdo» (l’osservazione è di Angelo Guglielmi), attraversate da spinte, controspinte, pulsioni incontrollate, repellenze isteriche, totali. Visionari perduti in giochi di proiezioni, divorati da false immagini di se stessi, da rielaborazioni a pioggia della (cosiddetta) realtà. Illusi che non sapranno mai di esserlo, sognatori risucchiati da rêveries interminabili. Sempre e comunque destinati alla più elementare, preculturale, prepolitica, delle opposizioni: quella contro l’universo in blocco. E dunque costretti a reinventarselo, quell’universo, a rifondarlo e spiegarlo attraverso inediti, astrusi costrutti filosofici, assurde e improbabili cosmologie.
Comprensibile che l’eroe di riferimento di Malerba sia stato il Don Quixote. Ora: una simile visione da «controcanto totale» dell’esistenza non poteva non generare una sintassi segnata, in fondo, dal medesimo deficit di adattamento, dunque zeppa di omissioni, sospensioni e spostamenti di senso, giochi verbali, compensazioni spesso equivocanti. Materiali che Malerba era in grado di disseminare e controllare con assoluta lucidità, nitore. Come pochi, Malerba sapeva raccontare l’asocialità, il borderline dall’interno, e lo faceva limando, scardinando senza ritegni e senza eccessi lo strumento deputato per eccellenza alla socialità: il linguaggio. E raccontava a tutti, considerato che è stato uno dei pochi autori per ragazzi degni del nome.
Certo, l’idea della scrittura come strumento di reinvenzione della vita e come salvezza contro conformismi, dogmatismi e pensieri unici palesi o striscianti (eredità d’un Futurismo latente nella nostra letteratura?) è stata grandiosa. Ogni idea grandiosa porta al disinganno. Anche Malerba ha incontrato il suo, credo. Penso a un romanzo come Fantasmi romani. Non fu solo l’opera di congedo, fu l’opera più amara, desolata, tetra. Perché lì quel deforme che sembrava patrimonio delle pagine e dell’immaginario arriva a invadere la vita stessa.

E quando la vita si mostrifica, significa che l’immaginazione sta morendo.
Così, alla fine, Luigi Malerba compie una sorta di gesto estremo in un romanzo, a suo modo, estremo, e dichiara che il possibile, il bizzarro, il mondo rovesciato è tra noi, e non sarà più nei libri.

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