Adesso Bocchino sogna di rubare il posto al capo

E' lui l'uomo immagine che parla a nome del gruppo e detta la linea. Solo un imprevisto può fermare le sue ambizioni: le dimissioni di Fini

Adesso Bocchino sogna di rubare il posto al capo

Questa non è la storia di Coppi e Bartali, del gregario che prende in contropiede il capitano. Qui si pedala basso, senza leggenda, senza fatica. Ma qualcosa in comune c’è. Cosa fa il porta-borracce quando quello che dovrebbe scattare è cotto? Se ha il dna del fuoriclasse si gioca il suo destino. Altrimenti, si arrangia. E magari prova a fare il furbo. Italo Bocchino probabilmente non è un fuoriclasse, ma in questi giorni si sta chiedendo se non valga la pena provarci. La colpa non è sua, ma dei Tullianos.

L’ultima volta che è stato in tv, a casa Vespa, ha sospirato allargando le braccia: «Gianfranco è stato un ingenuo». La frase è caduta lì e si è fermata, ma racconta bene lo stato d’animo di Italo Bocchino. La storia sta tradendo le sue speranze. La delusione la nasconde bene. Non arretra. Sorride. Alza la voce e tira avanti calpestando il confine della maggioranza. Né dentro né fuori. Qualcuno la chiama guerriglia, per lui è sapienza tattica. Bocchino è cresciuto studiando Tatarella, solo che rispetto al maestro le sua trame sono più rozze e si smagliano in fretta. L’operazione Fini assomiglia a un fallimento. Il gruppuscolo parlamentare non ha fatto in tempo a darsi un nome che già volavano schiaffi e malumori. Buona parte di quelli che hanno lasciato il Pdl lo hanno fatto per non dire no a Fini, per fedeltà a un’idea di uomo, per contare qualcosa di più, perché si sentivano inutili nel grande calderone della destra di governo, per solitudine o trasparenza, che è la più sottile malattia dei peones. Nessuno di questi è andato nel Fli per ritrovarsi a battere il ritmo di Bocchino, Briguglio e Granata. Ma così è stato. I finiani, di fatto, si sono ritrovati come leader Bocchino. È lui che fa il bravaccio anche a costo di danneggiare Fini. È lui che fa imbestialire le colombe di Moffa quando va ad Annozero. È lui che ha le chiavi di Generazione Italia, la vera struttura territoriale dei finiani. È lui che parla spesso a nome di Gianfranco, stando attento a non esagerare, perché sa che il capitano in disarmo può ancora fargli male. Ma di fatto i finiani hanno il volto di Bocchino.

Forse neppure Italo se l’aspettava. Negli anni è stato bravo a maneggiare la politica muovendosi dietro le quinte. Solo che per fare il tessitore, il regista, non bisogna amare troppo il palcoscenico. Bocchino fatica invece a tenere a bada un certo egocentrismo. Ma sul progetto finiano ci ha scommesso davvero. L’idea di essere il numero due della destra post berlusconiana era un bel salto nel futuro. Il dopo Fini sarebbe stato suo. Un buon lancio per una partita di lungo periodo. Solo che a un certo punto si è voltato e non ha visto più Fini. Strano Gianfranco. Qui vola fango da tutte le parti e lui sta sempre con quell’atteggiamento di chi non vuole sporcarsi le mani. Lui è diverso. Lui è altro. Lui passeggia con Elisabetta sulla spiaggia di Ansedonia. Lui è il presidente, spesso solo di nome, lassù a Montecitorio. Lui non si vede. Lui non parla. Lui sussurra e poi tocca agli altri spiegare. Lui quando tutto è andato in vacca compare come un ectoplasma per dire che il cognato forse lo ha ingannato. Il sospetto è che Gianfranco con questa storia che da grande vuole fare lo statista si sia dimenticato quanto puzza la politica. Non basta aggiustarsi la cravatta per accaparrarsi voti.

È toccato a Italo parare i colpi di Montecarlo. Quando ha capito che il super cognato l’aveva combinata grossa ha chiesto a Gianfranco di metterci la faccia. Fini ha scaricato i Tullianos e Bocchino ha cominciato a pensare se non era il caso di trasformare il suo capitano in una statua di pietra, cioè istituzionalizzarlo. Non è un caso che quando gli intellettuali del partito, vedi Alessandro Campi, hanno chiesto a Fini di dimettersi da presidente della Camera, lui abbia frenato: aspettiamo. I finiani più puri ora chiedono chiarezza. Basta balletti sul confine. È il momento di far nascere il partito, di aprire la campagna elettorale e sparare a zero su Berlusconi senza vincoli di carica. Bocchino no. Bocchino traccheggia. Vuole sedersi al tavolo della maggioranza. Vuole trattare il suo peso. Ripete che non sarà lui a far cadere il governo. Questa zona d’ombra è diventata la sua casa. È lì, come capo guerrigliero, che lui ha trovato una dimensione politica forte. Il ritorno di Fini, di questo Fini, rischia di far naufragare sullo scoglio elettorale ogni illusione. Bocchino sa che il peso specifico del Fli è un bluff neppure tanto coperto. È una proiezione futura ingrassata dalle parole. L’unica forza dei finiani è nella debolezza della maggioranza. È il gioco sul filo. È la fiducia o non fiducia. È il «vediamo cosa c’è nel piatto».

È qui che Bocchino tesse la sua partita. Se si rompe si va in salita e lui non ha le gambe abbastanza forti.

È questa tattica da guastatore, di interdizione, che Bocchino si è guadagnato una stagione da capitano. Bocchino, sulla terra di nessuno che divide maggioranza e opposizione, punta ad alzare il suo prezzo politico. E Fini in questa storia è solo di impaccio.

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