Quando Michele Mari fu, ben prima di diventare scoliarca, scolaro, negli anni in cui lo fu anche chi scrive qui, erano ancora in uso i fogli protocollo (ma forse esistono ancora). Li acquistavamo in cartoleria, per i temi in classe. Che cos'avevano, questi fogli, di particolare? Nulla, se non il fatto di chiamarsi così: fogli protocollo. Che cosa significasse «protocollo», la maestra non lo spiegò mai, però tutti capivamo (meglio, sentivamo) che erano stati insigniti di un cognome misterioso proprio perché li si usava per i temi in classe.
I fogli, probabilmente immateriali quanto il concetto di protocollo, su cui Michele Mari ha scritto i racconti riuniti in Le maestose rovine di Sferopoli (Einaudi) sono anch'essi fogli protocollo. Anch'essi sono bianchi, e per giunta senza le righe che scandivano la cosale attesa dei suddetti nonché la personale attesa nostra, prima durante e dopo i temi in classe, negli anni '60 e '70. Il protocollo, l'ha scelto di volta in volta Mari. Dove per «protocollo» s'intende «formula» quale diminutivo, se non vezzeggiativo alla maniera di «animula» per «anima», di «forma». Mari, lo scoliarca Mari, è infatti un prelibato gourmet delle forme protocollari, citazionali, situazionali che le parole assumono prima di manifestarsi in forma (inutile sfuggire alla dittatura della forma - e della parola «forma») di storie. Perché ha capito che le storie sono occasionali, mentre le loro forme no, sono dei protocolli, dei canoni irrinunciabili, molto più rigidi dei programmi ministeriali. E anche per fartene beffe, devi parlare/scrivere come vogliono loro.
In Strada Provinciale 921 che apre la raccolta, il protocollo è quello della guida turistica. Dove compare la «Sferopoli» del titolo: «Sulla sinistra, dopo il km 1.087, le maestose rovine di Sferopoli con i loro bastioni colossali di mica e basalto (visita senza ritorno)». Abbiamo detto «forma»? Eccola qui, in Argilla, la forma più formale e informale fra tutte, il Golem, perché è in atto una gara fra rabbini a costruire il Golem migliore (scilicet, peggiore). E i Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate, ecco la forma più cinica, il canone dell'estremo saluto.
E la forma del racconto in quanto tale? Cioè del testo canonizzato, antologizzato? Il falcone lo artiglia facendo strame della novella boccaccesca Federigo degli Alberighi, violentandola nello sviluppo, pur in ossequio al canone stesso. E la poesia, trionfo della forma per il tramite della lingua? Certo, pur che la lingua sia nota, non ignota, aliena come quella che in Sghru uno studente ignorante usa per tradurre un'ode di Foscolo. E la logica formale? Che cosa c'è di più rigoroso della logica? La logica che si morde la coda, diventando illogica, in Storia del bambino triste.
Con la forma più sfuggente, ricattatoria, vendicativa, quella dei sogni, in Oniroschediasmi Mari, vergando il diario di un sognatore sul ciglio dell'esaurimento nervoso che vuole sistematizzare i propri sogni, lascia cadere la parola chiave, all'ombra della quale nascono le sue storie. Il diario inizia così: «Alba livido-lurida, furore e rancore: quanto stile mi ci vorrà, quanti quintali, di stile?».
Stile, ovvero forma, ovvero canone. Chi tiene un diario è scrittore/lettore. «Scrivere ferma (quel poco), e leggere riattiva: ma questo perché chi legge è chi ha sognato». E chi scrive è chi ha sognato in modo conforme.
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