Alto Adige contro Ikea: "Qui non li vogliamo"

Il gigante svedese si prepara ad aprire un megastore a Bolzano. Ma la Provincia si ribella: "Sarebbe la nostra rovina". I commercianti temono la tabula rasa: "Vadano a vendere mobili a Innsbruck"

Alto Adige contro Ikea: 
"Qui non li vogliamo"

Montatosi un tantino alla testa, credendo magari di essere diventato il Piave, anche il fiume Adige decise di pronunciare qualcosa di patriottico. Così, gonfiate bene le onde, mormorò: «Non passa lo svedese!». Il suo nemico, quello contro il quale fare oggi «una barriera», ha i vistosi nonché miliardari colori giallo e blu dell’Ikea, la multinazionale dei mobili in scatola di montaggio, dei biscotti di Natale alla cannella e del catalogo fitto di nomi impronunciabili come Bjursta o Aspvik, che ricordano più i codici fiscali di qualche feroce guerriero vikingo che non un mite buffet o una servizievole libreria. Multinazionale che ormai è però, soprattutto, l’indiscusso colosso dell’arredamento ai prezzi più piccoli. A Milano come a Parigi, a Chicago come a Tokio.

Ed è appunto qui, sui prezzi, che casca l’asino. O meglio, che si incavola l’altoatesino. Perché di fronte alla ventilata e reiterata intenzione del gruppo svedese di aprire uno dei suoi megastore anche dalle parti di Bolzano, è insorta la Provincia stessa. Che ha affidato il gran rifiuto all’assessore all’Economia, Thomas Widmann, schieratosi così in difesa del modello locale di commercio al dettaglio. Quello che trova la propria peculiarità nel cosiddetto commercio “di vicinato”, costituito cioè da una fitta rete di negozi piccoli e medi.
La paura - che sia detto non è certo del tutto peregrina - è di venirsi a trovare nel cortile di casa uno di quelli che nel gergo del marketing sono chiamati «category killer». Ovvero giganti che grazie alla loro massa critica e ai conseguenti prezzi stracciati, finiscono col fare terra bruciata attorno a sé. Bruciando così anche quella altoatesina - erba rasata e geranei vermigli compresi - che circonda i tanti piccoli mobilifici e negozi della tradizione locale. Un tessuto di mini imprese, perlopiù a carattere familiare, che oltre a rappresentare una voce importante del commercio, costituisce un’attrattiva turistica in più per una terra che peraltro non ne è certamente priva.

Questo è lo scenario temuto dalle autorità bolzanine. «E per questa ragione farò di tutto perché grandi realtà come l’Ikea non vengano da noi», ha sentenziato l’assessore Widmann vedendo scorrere nella mente le interminabili cifre di bilancio e di quote di mercato del gruppo fondato sessant’anni fa a Älmhult dal signor Ingvar Kamprad (oggi la sede si trova però in Danimarca, mentre il controllo azionario è passato nelle mani di una fondazione benefica olandese).

Riferendosi poi ai suoi tanti conterranei che sembrano invece guardare con favore all’arrivo di un colosso sì «foresto», ma dai prezzi senz’altro concorrenziali, il buon assessore ha aggiunto una sorta di suo vaffa, traducendolo però molto urbanamente in un «che vadano a Innsbruck e a Verona!». Con esplicito riferimento alle due località più vicine, là dove l’impero svedese ha già piantato altrettante bandierine. Dipingendo rapidamente di giallo e di blu le aree circostanti, conquistando via via fette importanti dei mercati locali del mobile e stringendo di fatto d’assedio il territorio altoatesino, i suoi armadi intagliati nel cirmolo e il modello dei negozietti “di vicinato” dove quando entri ti dicono «Gruss Got».

A preoccupare Widmann sembra anche altro. Ovvero il fatto che della sorte del loro Davide, in un eventuale futuro confronto diretto con il Golia svedese, gli altoatesini (gli amministrati, non gli amministratori) sembrano volersi fermare alle parole di circostanza. Sostenendo cioè a parole di apprezzare la qualità dei prodotti domestici e il rapporto personale che caratterizza i piccoli negozi, ma migrando di fatto già ora, nei weekend, verso l’austriaca Innsbruck o la “meridionale” Verona - là dove c’è un’Ikea - quando si tratta di rifare cucina o salotto. E da là tornano a casa visibilmente soddisfatti. Rosicchiando il loro biscotto alla cannella.

Infischiandosene se parole come Bjursta o Aspvik non rientrano nel dizionario del bilinguismo, dogma inviolabile di questo strano pezzo dello Stivale. Badando insomma anche loro - come tutti gli italiani - più all’ultima cifra stampata sullo scontrino che non a quel familiare «Gruss Got».

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