Dieci anni senza Pietro Mennea, il signore dei duecento metri

Il 21 marzo del 2013 ci lasciava il più prodigioso tra i corridori italiani: l’oro olimpico, i record e la vita oltre la pista di un atleta entrato si scatto alla voce “mito” nel vocabolario del Paese

Dieci anni senza Pietro Mennea, il signore dei duecento metri

Strada assolata. Nastro d’asfalto sobbollente. Il tramestio scomposto di quelle marmitte che producono una fuliggine tossica, armate da motori ruggenti. In mezzo lui: canotta d’ordinanza, fisico sottile, slanciato ma nemmeno troppo. Qualcuno fa partire un segnale. Sgasa la Porsche alla sua sinistra. Scatta l’Alfa Romeo alla sua destra. Lui però le brucia entrambe sul tempo. Poi corre in avanti, per cinquanta metri, divorandosi quel vialone conficcato nella pancia di Barletta. Arriva incredibilmente prima delle belve metalliche. Ora è piegato sulle ginocchia, il torace che si gonfia e si comprime ritmicamente. Pietro Mennea solleva lo sguardo, divertito. Scommessa vinta. Cinquecento lire in tasca. Andrà al cinema, portandoci di corsa i suoi svelti quindici anni.

Dieci anni come ieri

La notizia rimbalzò rapida come uno dei suoi sprint. Morire il primo giorno di primavera è un inaccettabile ossimoro. Una stagione riparte, mentre la tua volge ai titoli di coda decisamente troppo presto. Dieci anni fa come oggi Pietro Mennea correva altrove. Era il 21 marzo 2013 e gli articoli sulla sua scomparsa giunsero con tempismo tellurico, propagandosi da Roma in poi. Una malattia tenuta all’oscuro di tutti. Nove mesi di lotta prima di deporre le armi. Molti cassetti rimasti aperti a metà, colmi della vita straripante che c’era stata fino ad un attimo prima. Tutta quella gente abituata a ripetere mantricamente quelle quattro parole – Ma chi sei, Mennea? – quando vedeva qualcuno sfrecciare, improvvisamente disorientata. Perché nel sentore collettivo gli eroi mica possono morire mai.

I primi successi, il flirt con i duecento metri

Aveva iniziato nel 1968: fototessera per l’Avis Barletta e via a mulinare le gambe. Si era inizialmente cimentato con i cento metri, ma era emerso quasi subito nitidamente un sentimento ricambiato per i duecento. Era la misura che metteva più a reddito il fervore atletico di Pietro, capace di partire esplosivo e di tenere quella cadenza per tutto il tempo. Non a caso quattro anni dopo, ai giochi olimpici di Monaco di Baviera, piazzava un sorprendente terzo posto. Nel ’74, invece, quella distanza lo aveva promulgato oro ai campionati europei disputati a Roma, città che sapeva sedurre Mennea, amante abile a frequentarla nelle sue pieghe più sincere. Erano, quei primi traguardi tagliati con tutti quei fiati alle spalle, l’anticamera di qualcosa di meglio.

Il record mondiale

L’orizzonte di Mennea era troppo esteso perché duecento metri bastassero a contenerlo tutto. Conteneva moltitudini, Pietro, e correva da un interesse all’altro tentando di conciliarli tutti. Non aveva mai rinunciato a studiare. Anzi, alla fine del suo percorso avrebbe conseguito quattro lauree, districandosi tra mille impegni con la stessa intensità che lo aiutava a primeggiare in gara. Nel ’79 frequentava scienze politiche e correva. Allora l’avevano iscritto alle Universiadi. Un volo a Città del Messico, i pensieri tutt’altro che appannati dalla calura, saldamente connessi alla forza motrice che animava quelle gambe come eliche di aliscafi. Fluttuava letteralmente, Mennea, sulla pista centroamericana. E iniziava parzialmente a sorprendersi di quell’ardore belluino. Nuovo record mondiale: duecento metri in 19’’72. Ci sarebbe voluto Michael Johnson, molti anni dopo, per superarlo di un’incollatura. Iniziarono a chiamarlo “La freccia del sud”. Non era però un tiro scoccato per caso.

La preparazione maniacale e il trionfo più grande

Non erano il frutto di un qualche miracoloso allineamento celeste, quei risultati. Pietro lo confessava a chi gli stava vicino: era un campione che non si bastava mai. La costante percezione di non sentirsi all’altezza lo portava ad optare per allenamenti estenuanti. Si racconta che un giorno un tecnico, osservando la sua tabella di carico, sgranò gli occhi esclamando: “Ma è ancora vivo questo?”. Eppure, quella straordinaria forza motrice interiore, mista ad una fragorosa inclinazione naturale, lo condussero a fare incetta di trofei. Il più luccicante resta senz’altro l’oro olimpico afferrato a Mosca, nel 1980. Molto del suo universo interiore è racchiuso nello spazio angusto dei duecento metri di quella corsa. Allan Wells che lo sorpassa subito e pare avviarsi verso una vittoria certa. Pietro che non lo accetta, non molla e lo recupera, vincendo l’oro. Il manifesto di una tenacia che lo ha sempre sospinto.

Oltre la pista, un uomo appassionato

Smessi gli abiti da atleta, fuori dal perimetro sportivo della sua vita, Mennea era percorso da passioni carsiche: magari non trasparivano sempre, ma scorrevano incessanti. Tra le più potenti c’era senz’altro un vigoroso appetito per la conoscenza. Si laureò in scienze politiche, facoltà alla quale si era iscritto su consiglio di Aldo Moro, ma progressivamente ottenne anche i rispettivi titoli in giurisprudenza, scienze motorie e lettere. Divenne, in seguito, docente di alcune di quelle materie che aveva così ardentemente coltivato. Con la moglie Manuela Olivieri, sposata nel 1996, si occupò anche di condurre una class action per difendere un gruppo di risparmiatori precipitati nel crack della Lehman Brothers. Fu dunque avvocato, ma anche curatore fallimentare, eurodeputato e commercialista. Creò una fondazione benefica. Promosse una lotta senza quartiere al doping.

Dietro l’atleta c’era un uomo animato da un giacimento interiore inesauribile.

Entrambi, lo sportivo e la persona, hanno saputo irrorare il cuore di chi è gravitato intorno. E forse, in fondo, è stata questa la sua impresa più grande: dieci anni come se fossero meno di dieci secondi.

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