L’aria è impregnata di salmastro per tutto il tempo. Navi che sbuffano, anime brulicanti. Specie adesso, che è finita la guerra. E poi ci sono i fiori: da queste parti diventeranno esageratamente famosi per le rose. Ci faranno un festival, pure. Portland è un bacino operoso che si dipana nella pancia dell’Oregon. Sotto le incrostazioni del lavoro quotidiano c’è, anche da queste parti, il divertimento generato dallo sport. Football principalmente, ma anche baseball. E il basket, certo.
Così pare quantomeno singolare che da qui, quando scocca il 1947, possa spiccare il volo un ragazzo capace di riscrivere i dogmi logori dell’atletica internazionale. E parliamo di una di quelle imprese che, anche soltanto per immaginarle, devi appartenere ad una ristretta cerchia di eletti. Richard Douglas Fosbury, “Dick” per i più intimi, ne faceva parte a pieno titolo. Così quando la notizia della sua scomparsa all’età di 76 anni, al culmine di una riottosa malattia, ha rimbalzato da un’agenzia di stampa all’altra, per molti è stato un po’ come fare un salto nel vuoto.
Morto nel sonno, Fosbury. Se n’è andato avvolto da un silenzio ovattante, simile a quello che si generava tutt’intorno, prima di una delle sue imprese. L'assenza però non scalfisce il ricordo. Anzi, lo fortifica. A vent’anni sfoggiava un fisico agilmente dinoccolato. Spesso si faceva crescere i capelli castani fino all’altezza delle spalle, costringendoli in una fascetta quando doveva saltare. Perché era questo il mestiere di Dick. Saltare. In alto, per la precisione.
Quando aveva iniziato lui, ai tempi del college, c’era un unico modo per farlo. Inspiravi una robusta quantità d’ossigeno, facevi il vuoto intorno, esplodevi tutta la potenza di cui eri capace e pregavi la tua divinità personale di non andare a sbattere contro l’asta. Alcuni ci riuscivano, molti di più collidevano. Ma tutti decollavano verso l’alto aggirando l’ostacolo con il ventre rivolto verso il basso. Maledizione, chi salterebbe al contrario? Sarebbe del tutto innaturale.
Dick però aveva fatto spallucce. Si era scrollato con quelle pupille fameliche ogni benedetta riga dei regolamenti federali e aveva scoperto che mica era vietato. Poteva balzare oltre come meglio riteneva. E lui riteneva di provarci alla rovescia. Dando la schiena all’asta, per poi precipitare alla ceca. Un brivido freddo si infilava in mezzo alla scapole ogni volta. La movenza richiesta era più efficace di quella tradizionale, ma richiedeva una torsione maggiore ed una accentuata quantità di sangue freddo. Oltre a questo, la circostanza che nessuno l’avesse mai tentata prima di allora rendeva l’impresa particolarmente temeraria.
Qualcuno lo ribattezzò in fretta il “Fosbury Flop”, perché quando valicava l’asta sembrava proprio un kleenex appallottolato che si abbandonava alla caduta, senza dirigerla in alcun modo. Con quella tecnica sgranò dapprima gli occhi di mezza America. Vittoria al campionato NCAA. Successo deflagrante ai trials di qualificazione olimpica. Era il preludio a qualcosa di imponderabile, per uno venuto dall’Oregon. Alle Olimpiadi messicane del 1968 conquistò la medaglia d’oro, fissando il nuovo record alla formidabile altezza di 2 metri e 24 centimetri. Dopo quel giorno i saltatori in alto di tutto il mondo iniziarono ad emularlo. Ispirati da quel sovversivo coraggio, modificarono progressivamente la loro tecnica. Un processo evolutivo talmente evidente che oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, la modalità originaria fa sorridere a ripensarci.
L’ultimo salto, Dick, ha provato a farlo contro un maledetto linfoma.
Mentalmente, deve aver serrato le palpebre, avvitandosi e abbandonandosi come sempre. Non sapeva che sarebbe stato il tentativo finale. Ma il ricordo di un uomo che ha corretto il destino non svanisce. Volteggia nell’aria, per sempre. A debita distanza dagli ostacoli della vita.
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