Perché un quarto posto (a volte) vale una vittoria

I nostri azzurri, se non sono da podio, sono incollati al podio. Questo è l'unico vero modo di guardare alla medaglia di legno. Che non è carbone, non è maledizione, non è punizione. È un quarto posto

Perché un quarto posto (a volte) vale una vittoria
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È legno, come per la 4x100 ieri sera allo Stade de France, come per il volley al pomeriggio, come per i tuffi, il nuoto, la marcia, legno, legno, ancora legno. Però è un legno che a volte sembra carbone, altre una maledizione, altre una punizione. Dipende da chi lo riceve e da come lo si vive. Ogni quattro anni, quando il Paese si sveglia per le Olimpiadi e scopre queste ragazze e ragazzi meravigliosi di cui, a parte rarissimi casi, non conosce la specialità in cui gareggiano, figuriamoci nome e cognome, ogni quattro anni il Paese si appropria delle gioie che ci regalano e cerca di dimenticare alla svelta il loro dolore. Perché non c'è pena più grande della medaglia di legno: il quarto posto. Una medaglia di carbone per gli atleti che in fondo al cuore sanno di non aver dato tutto o fatto quel che serviva in preparazione dei Giochi. È un segreto nascosto che conoscono e celeranno per sempre assieme ai propri tecnici, secondi padri e madri per chi gareggia. Il legno che sembra carbone è raro, rarissimo, in questa olimpiade neppure uno, forse neppure nell'altra, perché gli atleti, oltre che generosi di solito non sono cretini.

Il legno che sa di maledizione è invece il più doloroso, si insinua ripetendosi o manifestandosi nel modo più bastardo: per pochi centesimi. Mezzo respiro e sei sul podio, mezzo respiro e sei giù. Simona Quadarella, nostra ragazza della fatica, ha chiuso due volte quarta in questa olimpiade, 1.500 e 800 stile libero. E come lei, è storia di ieri, Chiara Pellacani, regina azzurra dei tuffi. Stavolta a spintonarla sul selciato senza gradini non sono state le fredde ma giuste mani del cronometro ma quelle imperfette e spesso odiose dei giudici: quarta nel trampolino tre metri dopo essere stata quarta nel sincro. Come per la piccola e sorridente Benedetta Pilato, quarta per un centesimo nei 100 rana. La dolce Benny ha provato a esorcizzare quel legno che sapeva di maledizione spiegando che la felicità alla sua età può avere anche le sembianze di un tronco steso fra te e il podio che ti sgambetta all'ultimo. Non tutti l'hanno compresa.

E qui veniamo alla medaglia di legno che si trasforma in punizione. Non riguarda gli atleti, non è mai per loro, è per chi guarda, chi giudica da fuori, chi fa calcoli a ogni vigilia, chi rincorre le medaglie per le foto, le strette di mano, gli articoli più letti, le immagini più viste, i post più condivisi. Perché la medaglia di legno diventa punizione e monito per tutti coloro che avevano fatto previsioni di gloria e giubilo sulle spalle di questi ragazzi. Punisce noi che ci perdiamo in formule e algoritmi predittivi a ogni olimpiade che Giove olimpico dio dello sport manda in terra, raccontando che l'Italia stavolta secondo le proiezioni otterrà una medaglia, due medaglie, tre medaglie in più della spedizione

precedente. E nel dire noi puniti, noi maestri dei calcoli, aggiungiamoci i veri professori in questo, i politici dello sport che lo sport governano e i politici della politica che da un po' di anni hanno preso a postare applausi e baci accademici. Puniti anche loro. Stamane sarà tutto uno spellarsi di mani e bene e bravo e bis per il numero di ori di Tokyo, dieci, superato. Ma nascosto nell'animo di chi vive la medaglia di legno come una punizione, ci sarà ben altro calcolo: gli oltre venti legni presi sui denti in queste olimpiadi. Un numero esorbitante, che avrebbe stravolto il nostro medagliere se solo la metà di quei quarti posti fosse diventato bronzo, ma che non muta il senso delle cose: i nostri azzurri, se non sono da podio, sono incollati al podio. Questo è l'unico vero modo di guardare alla medaglia di legno.

Che non è carbone, non è maledizione, non è punizione. È un quarto posto. Vuol dire che siamo forti. È così, ci deve bastare. E per onorare questi ragazzi, facciamogli vedere che siamo anche felici. Magari ricordandoci il loro nome.

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