C’ è un’ultima persona senza la quale non avremmo potuto vincere: Silvio Berlusconi. Nell’agosto precedente gli avevo fatto visita nella sua casa in Sardegna per chiedergli aiuto sulla candidatura. L’Italia era uno dei protagonisti fondamentali. Mi aveva domandato fino a che punto fosse importante per noi ottenere le Olimpiadi. «È importante» avevo risposto. «Molto?» «Molto.» «Sei mio amico» aveva detto Berlusconi. «Non ti prometto niente, ma vedrò cosa posso fare».
Questo comportamento è tipico di Silvio ed è per questo che lo ammiro. Quasi tutti i politici promettono, ma poi non combinano nulla. Lui non aveva promesso: aveva agito. I rapporti personali contano, questo è ovvio, ma chi pensa che siano elaborati stratagemmi e calcoli matematici a determinare le negoziazioni e i compromessi, sembra ignorarlo.
A tutti i livelli, ma soprattutto ai vertici, la politica ruota intorno alle persone. Se un leader ti piace, cerchi di aiutarlo anche se ciò può andare contro i tuoi interessi. Se non ti piace, non lo aiuti. Se prendi le distanze per motivi politici - per esempio perché, come nel caso di Silvio, c’è più di una controversia sul suo conto - va benissimo, ma non illuderti: a perdere è il tuo Paese. Quel leader non è stupido e sa che non sei disposto a pagare un prezzo per avvicinarti a lui. Credi che non ti serbi rancore? Non so come abbiano votato gli italiani, però...
Il 1˚ luglio assumemmo la presidenza semestrale dell’Unione europea, che avevamo detenuto per l’ultima volta nel 1998. Durante il mio precedente periodo in carica, ben sette anni prima, ero pervaso dall’entusiasmo per la recente nomina a primo ministro e, essendomi appena affacciato sulla scena europea, ero quasi un emerito sconosciuto, a me stesso e agli altri. L’Europa non era stata uno dei punti salienti del primo mandato.
Più che a cambiare l’Europa,ero interessato a dimostrare che la Gran Bretagna era cambiata. Eravamo pieni di proposte azzardate, anziché di strategie, e ora rabbrividisco se ripenso ad alcune di quelle «iniziative». Una mente geniale aveva deciso che le nostre cravatte (ogni Paese aveva una cravatta e un logo con cui contraddistinguere la propria presidenza) dovessero avere effigiate immagini delle singole nazioni realizzate dagli alunni delle elementari. Non ne avevo saputo nulla finché avevo ricevuto una telefonata dell’allora capo del governo italiano Romano Prodi. Spesso Romano era un po’ difficile da seguire ma in quell’occasione era stato chiarissimo: «Ehi, Tony, tu insulti il mio Paese. Non abbiamo solo la pizza, sai. Abbiamo Roma, Firenze, Venezia, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Galileo, Verdi, Garibaldi, e ora la mia nazione teme che il mondo ci considererà una pizza quattro stagioni. Non va bene.
Devi fare qualcosa, altrimenti i rapporti tra Gran Bretagna e Italia si guasteranno » eccetera. Se vi dico che questo è più o meno l’unico ricordo di quella presidenza, capite che non fu uno dei miei periodi più brillanti.
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