Anche Don Camillo e Peppone sono nelle mani delle cosche

Usura, estorsioni, crimini spietati. A Brescello la saga di Guareschi è stata ormai sostituita da quella del Padrino. Le infiltrazioni della n’drangheta hanno avvelenato l’economia. E moltiplicato i delitti

Anche Don Camillo e Peppone sono nelle mani delle cosche

nostro inviato a Brescello (Reggio Emilia)

Brescello ha una storia e una leggenda. La leggenda, che tutti abbiamo imparato a conoscere e ad amare fin da piccoli, va in scena ogni mattina alle 10 (alle 9.30 nei festivi), quando riaprono i battenti del museo dedicato ai personaggi immortali della favola bella scaturita dal cervello e dal cuore di Giovannino Guareschi. Ovvero quella del «piccolo mondo di un mondo piccolo piantato in qualche parte dell'Italia del Nord, là in quella fetta di terra grassa che sta tra il fiume e il monte...».

Ma Brescello, purtroppo, da tanti anni ha anche una sua storia. Storia brutta, impastata di criminalità e violenza, di droga e usura, di estorsioni e crimini spietati compiuti in parte qui, «tra il Po e l'Appennino», e in parte in Calabria, come capitò il 10 maggio 2004 al vecchio boss Antonio Dragone, ammazzato addirittura a colpi di bazooka in un «non luogo» ormai quasi disabitato chiamato Cutro, in provincia di Crotone, dove rimane comunque ben salda la regia delle cosche e delle 'ndrine e dove continua ad avere radici profonde e inestirpabili almeno un terzo delle 4.800 anime che popolano il paesino emiliano.

È una brutta storia tristemente nota alla brava gente di qui, che subisce in silenzio le angherie e i pizzi imposti dai bulli dagli occhiali neri a specchio, ma anche soltanto i parcheggi arroganti, dove a tutti gli altri è vietato, di certe Lamborghini o Bentley tirate a lustro e del tutto ingiustificabili a fronte delle giornate oziose trascorse al bar dai loro proprietari.

È una brutta storia fitta di nomi e di date, di soldi sporchi e di morti ammazzati, che non ha certo segreti per chi svolge ruoli investigativi, come confermano i rapporti della Direzione investigativa antimafia che da anni indicano «Modena, Reggio, Parma, Bologna, Rimini e Ferrara come territori a rischio per le ramificazioni dei clan» con l'evidente «tentativo di infiltrazione nel tessuto sociale ed economico della regione» da parte «di alcune tra le più pericolose cosche». Con particolare riferimento, oltre a quelle di Casal di Principe, alle «aggregazioni mafiose di Cutro e Isola Capo Rizzuto, riconducibili agli Arena e ai Grande Aracri».

È all'ombra di questi nomi che a Brescello, così come in altri angoli della ex terra felix emiliana, ormai appassito orgoglio dell'ormai appassito Pci (poi diventato Pds, quindi Ds, infine Pd e chi più ne ha più lo ribattezzi) sono prolificate negli anni miriadi di attività edilizie fondate sul lavoro nero. Aziendine che dopo aver attirato anche tanta povera gente che aveva soltanto l'umana necessità di lavorare, sono diventate i paraventi per altre illecite attività di diversi individui sospetti incistatisi nel ricco Nord grazie alla geniale trovata dei soggiorni obbligati.

Lo confermano operazioni come quelle denominate «Argine» e «Cane rosso», del '96, condotte per debellare il traffico di cocaina. O quella battezzata eloquentemente «Edilpiovra» (2003) che ha permesso di debellare, prima che ci pensasse la più recente crisi del settore, parte del racket di cantieri e appalti. Edilpiovra ha coinvolto personaggi come Francesco Grande Aracri, residente a Brescello, fratello del capocosca calabrese Nicolino (detto «Manuzza»), nonché ex luogotenente del clan Dragone, ma divenutone poi acerrimo nemico. Altre operazioni più recenti, sempre a Brescello e nella Bassa, svoltesi nel 2004 e nel 2005, sono state quelle denominate rispettivamente «Scacco Matto» e «Grande Drago», che all'epoca condussero a numerosi arresti di esponenti delle due cosche opposte, accusati di una serie infinita di crimini e delitti.

Tutta gente dalla memoria lunga e che non si spaventa certo delle distanze, come dimostrò l'uccisione di Giuseppe Ruggiero, per l'anagrafe «muratore», assassinato il 22 ottobre 1992 a Brescello, dove si trovava agli arresti domiciliari, da falsi carabinieri in false divise giunti dalla Calabria a bordo di una altrettanto falsa gazzella. Avevano bussato alla sua porta nella notte, con la scusa di fargli firmare la presenza e lo avevano freddato davanti ai figli e alla moglie. Il cui disperato, ma tardivo grido «non aprire, non aprire» era risuonato nel silenzio di quei vicoli che un tempo, al massimo, avrebbe potuto essere rotto unicamente dallo starnazzare dei polli di don Camillo, trafugati dal «Brusco» su incarico del sindaco Bottazzi.

Sono fermi fortunatamente a quei ricordi i turisti che ogni giorno arrivano qui da tutta Italia e dall'estero, a famigliole intere, a gruppi, perfino con i pullman, per fotografarsi sorridenti abbracciati alle statue bronzee di Peppone e Don Camillo che li attendono paciosi e ad altezza d'uomo, senza piedistallo, sul lastricato di piazza Matteotti; o per immortalarsi accanto a quel carro armato che il compagno sindaco di Guareschi teneva sempre in funzione, ben nascosto in una cascina, nell'idealistico e candido vagheggiare di poter, un giorno, «fare la Rivolussione». Quella pronunciata con la esse marcata. Quella da scrivere, ovviamente, in maiuscolo.

Il fatto che quelle cronache nere dovessero rimanere così, sotto traccia, per non far svanire l'alone bonario della leggenda, qui sono in molti ad attribuirlo alla «distrazione» (o ignavia?) delle amministrazioni di sinistra succedutesi a Brescello negli anni. Premura che sarebbe anche umana e comprensibile se fosse stata solo quella di tutelare la piccola economia locale fondata sulle memorie guareschiane. Premura divenuta però politicamente sospetta sapendo per esempio che la «scomoda» targa donata dal leghista Mario Borghezio è stata fatta rimuovere non si sa bene da chi dalla facciata del museo e che tutt'ora sia ben custodita in qualche discreto cassetto del Municipio. Episodio che spiega, insieme alle grida «viva la mafia», echeggiate ai comizi leghisti, perché il Carroccio sia passato a Brescello da poco più del 3% di quattro anni fa al 18% delle ultime elezioni.

La premura degli amministratori di sinistra è scivolata poi nel ridicolo con la gita in pullman organizzata nel maggio scorso, guarda caso alla vigilia delle elezioni - destinazione Isola Capo Rizzuto, in Calabria - con la partecipazione in pompa magna del sindaco Giuseppe Vezzani, del suo vice Andrea Setti e perfino del parroco don Giovanni Davoli (cosa avrebbe detto di lui Don Camillo?). Gemellaggio ufficialmente «religioso», imbastito per la festa della Madonna Greca, ma che nella combattiva sede della Lega chiamano con un altro nome: «gemellaggio elettorale». Confermato del resto dalla grigliata svoltasi al ritorno dell'allegra brigata proprio nel quartiere che la gente di qui chiama ironicamente Cutrello: un pugno di ville di lusso, a 800 metri dal centro del paese, dove l'ascendenza calabra è ovviamente d'obbligo.

La stessa premura della locale giunta era peraltro apparsa quantomeno grottesca qualche anno prima, nel settembre 2003, quando l'allora titolare del bar «Don Camillo», proprio in piazza Matteotti, in faccia alla chiesa, disperato ed esasperato per le continue richieste di pizzo, aveva tirato giù per sempre la saracinesca esponendo il cartello «Chiuso per minacce mafiose ed estorsioni». Con l'unico risultato di veder sparire subito dopo quel cartello e soprattutto di vedersi querelare dal sindaco allo scopo di «tutelare l'immagine del Comune» di fronte a una iniziativa sfrontatamente definita dall'amministrazione «tanto improvvida quanto inaspettata». Querelato, anziché difeso, dal suo stesso primo cittadino.

Incredibile, ma evidentemente possibile qui, scriveva Guareschi, dove «d'estate un sole spietato picchia martellate furibonde sui cervelli della gente e tutto si esaspera». Qui, aggiungeva preveggente, «dove accadono cose che non possono accadere da nessun'altra parte».

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