Anche i soccorsi sono una catastrofe

RINFORZI Tre presidenti in campo. Ma per gli Usa Haiti è un incubo logistico senza soluzione

Obama l’incantatore ci prova anche stavolta. Con la pace, dal Cairo ad Oslo, gli è riuscita benissimo. Con il terremoto rischia d’essere più difficile. Per ora c’è la scenografia. Una roba stile tre «sopranos» con Bill Clinton e George Bush chiamati a fargli da veline alla Casa Bianca e lui in mezzo ad annunciare un piano di aiuti senza precedenti: «L'impegno americano per Haiti è una delle più grandi operazioni di soccorso nella storia degli Stati Uniti e si misurerà - spiega Barack Obama - in mesi e anni, non in giorni e settimane». Per ora si misura con una devastante paralisi. A Port-Au-Prince i soccorsi sono prigionieri di un inestricabile ingorgo, di un incubo logistico che gli americani, responsabili da venerdì di tutti gli interventi d’emergenza, non riescono a sciogliere. Il collo della bottiglia, la strettoia dell’imbuto è tutta all’aeroporto di Port-au-Prince, un’angusta striscia d’asfalto rattoppata alla meglio in un oceano di macerie e cadaveri. In quella strozzatura sono piovute e si sono ammassate oltre 180 tonnellate di aiuti. Un ben di Dio che nessuno riesce a trasportare altrove a causa della mancanza di mezzi, carburante e strade. E mentre quei preziosi rifornimenti restano bloccati non possono neppure atterrare nuovi aerei perché non troverebbero il posto per impilare nuovi carichi. Il paradosso organizzativo finisce con l’inceppare tutta la macchina degli aiuti e spinge le Nazioni Unite a parlare di uno dei peggiori disastri di tutti i tempi. «Per quanto riguarda i problemi logistici, non ci siamo mai confrontati con una situazione di questo tipo, neppure dopo lo tsunami avevamo registrato difficoltà simili» spiegava ieri Elisabeth Byrs, portavoce dell'ufficio di coordinamento dell’Onu a Ginevra.
Persino il segretario di Stato Hillary Clinton, spedita da Obama a cercar di mettere ordine in quel caos da tregenda, si ritrova costretta ad ammettere, una volta ad Haiti, che la situazione «it is not fair», «non va proprio bene». A capirlo non ci vuol molto. Nei posti di soccorso improvvisati i feriti agonizzano per mancanza di medicine. Tra le macerie di Port-au-Prince i sopravvissuti accampati tra i calcinacci rischiano un’epidemia per la presenza di migliaia di cadaveri in decomposizione. Nei centri di raccolta - dove gli sfollati sperano di trovare viveri e generi di conforto - i poliziotti haitiani e quelli dell’Onu stentano a bloccare saccheggi e assalti delle gang. «Non abbiamo viveri, abbiamo finito i guanti chirurgici, gli antibiotici e i disinfettanti... è terminata persino la scorta d’acqua, i bambini che soccorriamo hanno la gola secca e incominciano a soffrire di disidratazione» denuncia il dottor Jean Dieudonne Occelien, uno dei pochi medici al lavoro dell’Hospital General di Port-au-Prince. Tra le corsie della struttura semidistrutta migliaia di feriti continuano a non ricevere assistenza. E a morire. «Non riusciamo neanche a contarli», ripete il direttore Guy Laroche, ricordando la mancanza di elettricità, acqua potabile, benzina per le ambulanze, farmaci, sangue per le trasfusioni, cibo, medici. Duemila cadaveri ammassati nella camera mortuaria nei corridoi e nel cortile attendono sepoltura.
A puntare il dito sul rischio epidemie ci pensa il ministro degli interni haitiano Paul Antoine-Bien Aimé ricordando che «sono stati raccolti e sepolti cinquantamila cadaveri, ma da quanto risulta il totale dei morti dovrebbe andare da 100mila a 200mila». Sopra e sotto le rovine marciscono insomma dai 50mila ai 150mila resti umani. Quella bomba sanitaria a tempo rischia di scatenare il peggiore dei contagi se non si riuscirà a disinnescarla entro 48 ore. Queste drammatiche prospettive rischiano di mettere in moto un incontrollabile esodo verso la frontiera della Repubblica Dominicana. Migliaia di abitanti di Port-au-Prince tentano da ieri di lasciare la capitale. «Le strade sono impregnate dell'odore della morte, gli aiuti non si vedono e i nostri bambini sono costretti a vivere come animali» racconta Talulum Saint Fils, mentre vaga assieme al marito e ai quattro bambini alla periferia della capitale.
Il timore è che migliaia di disperati come Talulum e la sua famiglia si concentrino alla frontiera con la repubblica Dominicana spingendo le autorità a schierare l’esercito e chiudere il confine per timore di contagi. Quella decisione finirebbe con il bloccare o almeno ostacolare tutte le colonne di soccorsi che fanno capo all’aeroporto di Santo Domingo e muovono via terra verso Port-au-Prince. Per tutta la giornata di ieri colonne di famiglie e automezzi si sono ammassate al valico di Malpaso.

Le autorità dominicane consentono per ora il passaggio ai feriti e a chi vuole comprare viveri e vestiti. I soldati sono pronti, però, a bloccare qualsiasi tentativo degli sfollati d’insediarsi oltre la linea di demarcazione.

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