Anche l'Unità caccia il compagno Fini

La scoperta dell'organo del Pd: "Non può più fare il presidente della Camera". Ogni tanto i quotidiani progressisti si accorgono che l'ex leader di An è nei guai fino al collo. Poi si pentono. Ma ora i nodi stanno per venire al pettine

E così anche L’Unità dà il benservito al compagno Fini. Lo fa con garbo e non senza aver preventiva­mente scaricato un po’ di fango sul Giornale , passag­gio obbligato per chi vo­glia muovere un appunto, per quanto modesto, alla terza carica dello Stato. Pe­rò lo fa. A pagina tre del quotidiano fondato da An­tonio Gramsci (e poi fini­to, di disgrazia in disgra­zia, nelle mani di Veltroni e infine della De Gregorio) ieri si poteva leggere un ar­ticolo in cui si sosteneva ciò che andiamo predican­do da oltre un mese: Fini sta conducendo una lotta politica, si appresta addi­rittura a fondare un parti­to, quindi non può fare il presidente della Camera.

Oggi, probabilmente, la di­rettora dalla penna rossa incaricherà qualcuno di rettificare il tiro. Così è sempre andata la cosa in questo strano agosto, in cui le notizie, almeno quel­le riguardanti Gianfranco Fini, hanno provocato at­tacchi di schizofrenia acu­ta nelle redazioni dei gior­nali sedicenti progressisti. È davvero curioso il rifles­so condizionato che ha spinto i quotidiani antiber­lusconiani- vale a dire qua­si tutti - a stendere un cor­done sanitario a protezio­ne dell’ex leader di An, vi­sto evidentemente come la «speranza nera» nel ma­tch destinato a spedire ko Berlusconi. E come tale da preservare a tutti i costi e contro tutte le evidenze. Anche quando le prove del «doping» sono talmen­te lampanti da provocare risolini imbarazzati a bor­do ring.

Certo, sotto l’incal­zare delle prove scovate dal Giornale a Montecar­lo, il fronte di liberazione dalle informazioni scomo­de talvolta ha vacillato. Il Corriere della Sera , per la penna del suo condiretto­re, ha fatto sapere che non era mica tanto convinto delle spiegazioni date dal presidente della Camera sull’appartamento di An fi­nito al «cognato». Ma subi­t­o il quotidiano di via Solfe­rino si è pentito dell’auda­cia e non ha più osato for­mulare domande in pro­posito. Anzi, si è adopera­to p­er far filtrare tesi giusti­ficazioniste da parte del «cognato» medesimo, mentre uno dei suoi più prestigiosi commentatori, Pierluigi Battista, è stato costretto a rifugiarsi sul suo blog in internet per po­te­r scrivere quel che pensa­va: «Fini deve dimettersi». Ancor più bizzarro l’at­teggiamento del Fatto . Il foglio giustizialista ha driz­zato le orecchie quando ha saputo che la magistra­tura aveva aperto un’in­chiesta.

E in un paio di oc­casioni, con Luca Telese e Marco Lillo, ha incalzato Fini con una certa ruvidez­za. La formula era sempre la stessa: quelli del Giorna­l­e sono dei servi del padro­ne, fanno quel che fanno per puro killeraggio. Fan­no anche un po’ schifo, an­zi tanto. Però se è vera la metà di quel che scrivono, il vecchio Gianfranco de­ve fornire più di un chiari­mento. Poi ha preso la parola il loro vate, muto fino a quel momento. La spalla di Santoro ha consultato il suo codice di cristallo e ha deciso che era­no tutte stupidaggini, che il povero Fi­ni era puro come un giglio. Dal giorno dopo la linea del giornale si è capovol­ta: da un timido attacco a due punte si è passati a un catenaccio che neanche Nereo Rocco.

Ogni carta pubblicata dal Giornale veniva scandagliata nella speranza di coglierci in fallo. Ogni te­stimone che intervistavamo veniva il giorno dopo braccato dai segugi trava­gliati nel tentativo (vano) di fargli dire il contrario di quanto aveva dichiara­to. Un comportamento da veri colle­ghi interessati solo alla notizia e per nulla al suo riflesso politico. Bravi. Ma meglio di loro ha fatto Repubbli­ca . Molto meglio. Lo sconforto creato in Largo Fochetti dagli scivoloni etici di Fini ha prodotto un risultato mai vi­sto: il direttore sconfessato sul suo giornale dai suoi giornalisti senza che né l’uno né gli altri ci abbiano rimesso il posto. È successo infatti che dopo una settimana passata eroicamente in trincea a nascondere la notizia, al pri­mo ectoplasma di spiegazione esalato dal presidente della Camera il vicedi­rettore Massimo Giannini si è gettato prontamente in ginocchio, celebran­do in un’interminabile articolessa la chiarezza e la trasparenza e l’onestà e l’illibatezza del prode ex condottiero di An.

Il giorno dopo il direttore Ezio Mauro, espletato il rito dei secchi di im­mondizia rovesciati sui killer del Gior­nale , ha sbugiardato il suo vice e ha scritto che Fini non aveva spiegato un accidente di niente e che per cortesia si affrettasse a farlo. Non è successo nulla.

Nel senso che i repubblicones hanno fatto spallucce e hanno tirato avanti nella loro linea di assoluzione preventiva, Mauro si è dimenticato di essere un direttore e Fini si è guardato bene dal rispondere, restando rincan­tucciato nella sua tana così ben presi­diata dai cani da guardia della libera stampa. Peccato per lui che l’estate sia finita. L’aspettiamo, presidente. Con o senza le cortine di carta.

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