ANDREA DORIA Così affonda un sogno

Cinquant’anni fa il disastro del transatlantico. Un testimone ricorda quelle ore drammatiche

La notte tra il 25 e il 26 luglio 1956 dormivo in una stanza del «Plaza» di New York. Non era l’alba e mi svegliò lo squillo del telefono. Era Renzo Nissim, corrispondente del mio giornale allora, Il Tempo di Roma. «Sta affondando l’“Andrea Doria”», mi disse. Lo mandai a quel paese: «Ma lasciami dormire».
Ero a New York dopo un viaggio di quasi un mese in giro per gli Stati Uniti. La sera del 25, mercoledì, ero stato a cena con un gruppo di colleghi giornalisti, tutti più anziani di me, che mi avevano invitato per salutarmi. Il motivo per cui fui brusco con Nissim, che mi aveva chiamato al telefono per darmi la notizia dell’affondamento del «Doria», era dovuto al fatto che durante la cena avevamo scherzato sul mio ritorno a casa con una nave che allora era considerata forse la più bella e moderna in circolazione sui mari. Pensavo che Renzino volesse giocarmi un tiro. Accesi il televisore e verificai invece la realtà. Il transatlantico stava davvero affondando.
Sulle mie valigie pronte erano incollate le etichette del «Doria». Era prenotata per me la cabina 54 sul ponte superiore. Un impiegato della compagnia «Italia» (Iri), armatrice della nave, mi aveva detto che era quanto di meglio si potesse desiderare, perciò pregustavo una traversata piacevolissima. Purtroppo la prua dello «Stockholm», la nave svedese che investì il «Doria», si infilò proprio tra le cabine 46 e 56 del ponte superiore, procurando tra l’altro la morte di un collega del New York Times, corrispondente dall’Italia, Camillo Cianfarra, che con la moglie Jane occupava la 54, quella a me destinata, mentre le due figlie, Linda, 14 anni e Joan, 8 anni, erano nella 52.
Mi vestii in fretta, avvertii il portiere dell’albergo che non sarei più partito e in taxi mi recai alla redazione del mio giornale, che era nella sede della Wireless, il telegrafo, dov’erano le redazioni di molti altri giornali. Trovai Nissim e altri colleghi alle prese con telefoni, telescriventi e macchine per scrivere. Mi misi anch’io subito in movimento per trasmettere un servizio al giornale.
Nissim mi disse che un gruppo di giornalisti stava noleggiando un aereo per recarsi sul luogo del disastro. Volevo unirmi a loro, ma arrivai tardi, perché non fu facile avere per tempo da Roma l’autorizzazione alle spese.
A New York era una giornata afosa. Nella notte c’era stata fitta nebbia nel tratto di mare all’altezza del faro di Nantucket, al largo del Massachusetts. Il «Doria», partito da Genova il 17 luglio con a bordo 1.134 passeggeri e 572 membri di equipaggio, procedeva verso New York a una velocità di poco più di 21 nodi. Sul radar fu avvistata una nave proveniente dalla parte opposta a una velocità superiore di quella consentita nella nebbia. Era lo «Stockholm», partito da New York alle 11,31 del 25, diretto a Copenaghen, con a bordo 534 passeggeri. Il «Doria» era lungo 212 metri, lo «Stockholm» 159 metri.
Particolari di questa narrazione li debbo, oltre a quanto appresi direttamente a New York, a un libro di Alvin Moscow, cronista dell’Associated Press, che seguì tutta la vicenda della collisione tra le due navi, fino al processo che si svolse con ben quattro mesi di udienze senza venire a capo delle responsabilità. Le due compagnie armatrici in contesa addivennero poi a un accordo nel gennaio 1957, rinunciando alle reciproche richieste di danni (quella del «Doria» chiedeva 25 milioni di dollari, la svedese 2 milioni di dollari). Moscow, che più tardi fu al New York Times e poi consulente del presidente Nixon, pubblicò il libro più documentato sulla vicenda: Andrea Doria, un naufragio pieno di misteri, edito ora in Italia da Mondadori (pagg. 282, euro 10,40).
La collisione tra le due navi avvenne alle 23,10 del 25 luglio. C’è un particolare terrificante che debbo alla ricostruzione di Moscow. Un passeggero dello «Stockholm», il dottor Horace Petitt, si affacciò dall’oblò della sua cabina e vide il «Doria» a pochi metri di distanza. Disse alla moglie: «Tieniti forte, stiamo andando a sbattere». La prua dello «Stockholm» lacerò lo scafo d’acciaio del «Doria» come fosse di latta. Penetrò per nove metri in corrispondenza del ponte superiore del transatlantico italiano. Ebbi modo di vedere lo «Stockholm» quando arrivò a New York e constatai che la prua era ridotta a un ammasso di ferraglia lungo più di venti metri. L’«Andrea Doria» sbandò paurosamente sul fianco sinistro. Mi disse un passeggero che la prima cosa che pensò fu che la nave, come il «Titanic» nell’aprile del 1912, avesse urtato un iceberg.
C’è un particolare spaventoso: la prua della nave investitrice si infilò sotto il letto di Linda, la figlia di Cianfarra, nella cabina 52 del «Doria». La ragazza fu catapultata tra la ferraglia della prua della nave svedese. Incredibilmente rimase viva. A bordo dello «Stockholm» la soprannominarono «ragazza del miracolo». La sorella Joan, più piccola, rimase uccisa, come il padre.
A bordo del «Doria» non si ebbe subito la percezione dell’irreparabilità del danno patito. Lo stesso comandante, il capitano Piero Calamai, valoroso marinaio genovese (58 anni, morto poi a 74 anni nel 1972, riabilitato solo post mortem) sperò per alcune ore che la nave potesse restare a galla e, chissà, venire rimorchiata a Boston o a New York. Fu lanciato il primo SOS: «Abbiamo bisogno di assistenza immediata», con l’indicazione della posizione. Il comportamento del comandante Calamai fu ammirevole in un contesto altamente drammatico: lamenti, urla di aiuto di persone incastrate nelle cabine penetrate dallo «Stockholm», passeggeri che cercavano di raggiungere affannosamente il ponte di coperta.
Da parte della maggioranza dei passeggeri non si avvertì immediatamente pericolo di morte. Il cappellano di bordo, monsignor Sebastiano Satta, comunicò con ostie consacrate molte persone, ma rifiutò di dare l’assoluzione generale appunto perché anch’egli riteneva che non ci fosse da temere l’affondamento.
Sul posto giunse alle 2 del mattino, per primo, il transatlantico francese «Île de France», partito da New York e diretto a Le Havre con 948 passeggeri e 826 membri d’equipaggio. Seguì il guardiacoste americano «Evergreen», al quale il capitano Calamai, che non si era arreso all’irreparabile, si rivolse nella speranza che potesse rimorchiare la sua nave. Il «Doria», però, continuò a sbandare paurosamente, mentre proseguiva il salvataggio dei passeggeri.
Alle ore 3, a quasi cinque ore dalla collisione, Calamai, che cominciava a disperare, disse al suo secondo ufficiale, Guido Badano: «Se lei si salva, vada dai miei a Genova e dica che ho fatto tutto il possibile». Alle ore 4, ultimata l’opera di salvataggio, diede ordine di abbandonare la nave. Rimasero con lui dodici uomini. «Andate - disse loro -, resto io». «Se lei resta - replicò un ufficiale -, resteremo anche noi».
Lo sbandamento della nave, intanto, aveva raggiunto i 40 gradi. Era chiaro che non c’era più niente da fare, l’«Andrea Doria», con tutto lo splendore del suo arredamento e tante opere d’arte, stava affondando senza riparo. Mi disse un marinaio che in quelle ore il capitano Calamai apparve invecchiato di almeno dieci anni. Fu convinto a lasciare la nave. Erano le 5,30, mancava poco all’alba. Calamai assisté all’agonia della sua nave prima da una lancia, poi da bordo del guardiacoste «Hornbeam».
Nelle ore dopo l’alba il tratto di mare della tragedia s’affollò di navi, richiamate dai ripetuti SOS. Arrivarono la nave da carico «Cape Ann» (che recuperò 129 superstiti), la nave ausiliaria della marina americana «Thomas» (158 superstiti), la «Kelly» della marina militare americana, la norvegese «Free State», la britannica «Tarantia», l’honduregna «Manaqui», la petroliera «Hopkins» (vi salì un solo superstite), la danese «Laura Maersk», il cacciatorpediniere «Allen», il guardiacoste «Tamaroa». Altre navi si diressero verso il luogo del naufragio. La «Thomas» inviò via radio questo messaggio: «Navi in abbondanza, non occorre altra assistenza».
L’«Île de France», imbarcati 576 passeggeri e 177 uomini dell’equipaggio, poco dopo le 6 del mattino del 26 luglio fece rotta verso New York. S’era fatto giorno quando sul posto giunsero alcuni piccoli aerei, fra cui quello ch’io avevo mancato. Sorvolarono l’«Andrea Doria» che affondava. Dall’alto, mi disse un collega, era uno spettacolo agghiacciante. Calamai, che dall’«Hornbeam» s’era trasferito sul cacciatorpediniere «Allen», vide scomparire nei gorghi dell’oceano definitivamente il «Doria», che si depositò a cinquanta metri di profondità. Erano le 10,09 del giovedì 26 luglio 1956. Ultimo atto di una tragedia del mare seconda solo a quella del «Titanic» quarantaquattro anni prima. I morti furono 51, uno si spense sullo «Stockholm» per attacco cardiaco. Il punto dell’affondamento fu segnalato con una boa gialla.
A New York la gente, informata dalla radio, dalla televisione, dai giornali, visse con enorme emozione la tragedia. Al New York Times, quando giunse la notizia della collisione, sperarono, e ci contarono per diverse ore, che Camillo Cianfarra, loro redattore, trasmettesse ai lettori l’intensità drammatica della sciagura. Solo nel pomeriggio del 26 fu nota la terribile fine del collega.
Io, verso le ore 16, mi recai con Bruno Romani, corrispondente del Messaggero, al molo 88 del porto di New York, dove in serata sarebbe arrivato l’«Île de France» con il grosso dei naufraghi. Sul molo c’era Ruggero Orlando, formidabile telecronista, che s’aggirava irrequieto come sempre.
All’arrivo del transatlantico francese fu una ressa, uno spingi-spingi, per recarsi sotto bordo. Mi tenni attaccato a Romani e Orlando perché non ero provvisto del documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità americane. Un poliziotto alto e grosso come un armadio non voleva farmi passare nonostante gli mostrassi la mia tessera italiana e continuassi a ripetergli: «I am italian journalist».
Fu un giornalista del New York Times, che doveva essere evidentemente molto autorevole - era Sulzberger, ch’era stato corrispondente da Mosca - a far capitolare il cerbero. «He is my friend», disse mettendomi un braccio sulla spalla. Feci così il mio servizio raccontando ai lettori la mia storia di passeggero mancato dell’«Andrea Doria».
Tornai a Roma alcuni giorni dopo con aereo Lai (l’Alitalia non esisteva ancora). In redazione, in quel resto dell’anno 1956, vissi, da redattore capo, la tragedia della miniera di Marcinelle in Belgio (8 agosto, 139 italiani morti), la caduta di Gomulka in Polonia, la rivolta d’Ungheria (ottobre), le Olimpiadi di Melbourne (22 novembre-8 dicembre), la guerra tra Israele ed Egitto. Fu una stagione giornalistica di fuoco. Ci mancò poco che mi portassi una branda in redazione.

Andavo e venivo dal mio tavolo di lavoro alle telescriventi, continuavo a tenermi in contatto con inviati e corrispondenti, facevo la spola tra la redazione e la tipografia. Cinquant’anni fa. Fu una stagione giornalisticamente entusiasmante.

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