Un anno per fare una legge: è ora di cambiare la Carta

La "manutenzione" della Costituzione è il problema cruciale in democrazia: da trent’anni il presidente del Consiglio è ostaggio dei partiti e delle Camere

Al di là di qualsiasi giudizio in merito alla proposta - avanzata dal leader del Pdl, Silvio Berlusconi - di una svolta presidenziale alla francese, bisogna comunque sottolineare che è ormai giunta l’ora di mettere mano finalmente e seriamente alla Costituzione, mirando a una riforma dell’architettura istituzionale del Paese.
Come noto, la Costituzione repubblicana fu progettata - all’indomani della Seconda guerra mondiale - come specchio di una società e di una comunità politica oggi davvero diverse. Quella Repubblica democratica concepita nel segno della convergenza ideologica tra social-comunisti e cattolici - ipergarantista per scongiurare eventuali rigurgiti autoritari e fondata «sul lavoro» - ha mutato fisionomia nel profondo. E nessuno dei partiti presenti allora in Parlamento è oggi protagonista dell’arena politica. Tutti scomparsi.
Già in quel tempo vi furono delle prese di posizione piuttosto nette contro questa logica compromissoria. Del resto, alla fine degli anni Quaranta l’epicentro del sistema industriale era confinato nel triangolo Milano-Torino-Genova. Al di fuori di quest’area gli insediamenti industriali erano assai modesti. Oltre il quaranta per cento della popolazione attiva del Nord e il sessanta di quella del Sud lavorava nelle campagne. Al Centro i contadini erano in prevalenza mezzadri; al Sud era diffuso il latifondo.
Oggi i numeri sono diversi. Basta fare un giro in campagna, dove la mezzadria è stata abolita e il latifondo arginato, per vedere che - in certe zone del Paese - vi lavorano in prevalenza gli immigrati stagionali. E gli italiani dediti all’agricoltura sono circa il quattro per cento.
Ai nostri giorni uno dei problemi cruciali delle democrazie contemporanee è quello della «manutenzione» costituzionale. Una manutenzione che si configura come la necessaria azione di adeguamento della costituzione formale a quella materiale, rappresentata dall’insieme di regole non scritte che tuttavia s’impongono per il loro intrinseco valore normativo e condizionano i comportamenti della vita associata. Ma questo adeguamento è reso oltremodo macchinoso dalle procedure prescritte costituzionalmente.
L’iniziativa legislativa è oggi in prevalenza in capo all’esecutivo, con il legislativo nei fatti deprivato delle proprie prerogative. In media, ci vogliono tre mesi per l’approvazione di una legge governativa; ci vuole addirittura un anno per l’approvazione di una legge d’iniziativa parlamentare. Questo dicono le statistiche.
Sin dalla fine degli anni Settanta, la storia della Repubblica ha visto numerosi tentativi - sempre abortiti - di revisione costituzionale: dal progetto di «grande riforma» di Craxi al Decalogo Spadolini (1982), dalla prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali di Bozzi (1983-85) alla seconda Commissione bicamerale De Mita-Iotti (1992-93), dal Comitato Speroni (1994) alla terza Commissione bicamerale D’Alema. Gli argomenti al centro di tali iniziative di revisione sono stati sempre gli stessi: rafforzamento delle prerogative del Capo del Governo per la governabilità, riduzione del numero dei parlamentari, razionalizzazione del bicameralismo perfetto per evitare estenuanti ping-pong tra Camera e Senato, riorganizzazione del regionalismo, decentramento amministrativo, riforma delle autonomie locali.
Tanto valeva rimanere al Decalogo Spadolini, ma le riforme farle davvero. Il disegno di riforma del leader repubblicano prevedeva tra l’altro un rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio. Il tema del rafforzamento del capo del governo è davvero centrale. Troppo spesso, anche con i mutamenti intervenuti nell’ambito della legge elettorale in tempi recenti, il presidente del Consiglio risulta nei fatti ostaggio dei veri portatori del potere politico, cioè i partiti, tuttavia non disciplinati costituzionalmente, e delle maggioranze parlamentari.
Insomma, le occasioni per mettere mano alla Costituzione ci sono state. E i problemi insoluti dimostrano che fa difetto, nella classe politica nazionale una vera e propria cultura della manutenzione costituzionale. Questo deficit di cultura della manutenzione costituzionale ha gravato sul passato e grava pure sul nostro presente.

La classe politica non è infatti mai riuscita a farsi interprete attiva dei reali cambiamenti in atto, adeguando tempestivamente la Carta fondamentale - e, più in generale, l’apparato delle leggi - al mutare dei tempi e alle istanze diffuse in seno alla società civile. Dalla quale rimane troppo lontana.

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