"Appena assunto mettevo i nomi ai trovatelli e tagliavo le rette ai matti"

Vittorio Feltri, impiegato della Provincia di Bergamo, al brefotrofio prese a calci il timbracartellini. "E al manicomio applicai la tariffa minima a tutti. Mi cacciarono: fu la mia fortuna". I 500 Tipi italiani: "il Giornale" verso il Guinness

"Appena assunto mettevo i nomi ai trovatelli e tagliavo le rette ai matti"

L’ho fatto nel 2001 per il suo successo­re, Mario Cervi, che lasciava la direzione del Giorna­le al­ compimento de­gli 80 anni. Ho pensa­to che potevo rifarlo per Vittorio Feltri, che è tornato alla direzione del Giornale do­po 12 anni e ne festeggerà 67 venerdì prossi­mo. La vera sorpresa, semmai, è che abbia accettato di lasciarsi intervistare sul quoti­diano che dirige. Mai visto nulla di simile nel­la storia della stampa.

Tutta e solo colpa mia. Confesso d’aver­gliela venduta bene: per questa puntata dei Tipi italiani, la numero 500, ci voleva qualco­sa di assolutamente anomalo. E chi meglio di Feltri, l’anomalia fatta persona? Si dà per scontato che sappiate chi è, quindi vi rispar­mio il preambolo. Giusto per riassumere: due mogli, quattro figli (Laura e Saba dal pri­mo matrimonio, Fiorenza e Mattia dal se­condo), esordio all’ Eco di Bergamo, prima assunzione alla Notte, per 15 anni inviato al Corriere della Sera, otto direzioni (Bergamo Oggi, L’Europeo, L’Indipendente, Il Giorna­le, Il Borghese, Quotidiano Nazionale, Libe­ro, di nuovo Il Giornale). Come la pensa, lo leggete in prima pagina. Quindi niente poli­tica. Qui interessa l’uomo Feltri, il tipo. Più bergamasco che italiano.

Posso dirti che rispetto a 15 anni fa, quan­do mi assumesti come tuo vicario, ti tro­vo molto meno burbero e assai più pater­no. Che ti è successo?

«Anch’io mi sono accorto d’essere cambia­to, ma non so perché. Soprattutto non capi­sco se ero meglio prima o se sono meglio adesso».

Adesso. E da che cosa te ne sei accorto?

«Non mi nasce più l’ira dentro. Ho compre­so che gli uomini sono fatti così, non puoi cambiarli. Ho tanti difetti anch’io».

L’accettazione del limite.

«Non mi è costato niente. Ero sferzante e sar­castico persino con i figli. Però non gli ho mai tirato uno schiaffone».

Come si vive sapendo d’essere amati e odiati dal pubblico in eguale misura?

«Il conforto dei lettori è gratificante, ti dà la sensazione che la tua vi­ta abbia un senso. Un tempo quando scopri­vo d’essere detestato, il che avveniva tutti i gior­ni, soffrivo molto. Oggi è subentrata l’indiffe­renza. Non leggo nem­meno più i ritagli dei giornali che mi arriva­no con L’Eco della stam­pa. Magari vedo il mio nome nel titolo, li con­servo ripromettendo­mi di darci un’occhiata più tardi ma poi me ne dimentico. Tanto sul mio conto scrivono sempre le stesse cose: killer, cattivo, cinico. Non è vero, tu ne sei te­stimone. Ma va bene co­­sì, non c’è problema».

Da quanti anni vivi sotto scorta?

«Otto».

Ti senti impedito nel­la t­ua libertà di movi­mento?

«All’inizio parecchio. Non sopportavo l’idea che, mentre io ero al ri­storante, gli agenti ad­detti alla mia sicurezza fossero costretti a starse­ne fuori, sul marciapie­de. Ho risolto a modo mio: adesso vado a ce­na con loro anziché con gli amici. Sono ragazzi in gamba, preparatissi­mi. La gente ha un’idea sbagliata dei poliziotti, li vede come marmitto­ni. Pensa che uno di loro è geologo. Sono di­ventati come dei nipoti, per me, abbiamo in­staurato un bellissimo rapporto».

Giri ancora con la pistola?

«No, la tengo in casa. Ne ho due, una a Mila­no e una a Ponteranica. Smith & Wesson».

Una 44 magnum per l’ispettore Calla­ghan.

«Eh, adesso non ti saprei dire se è una 44 o una calibro 38. Me l’hanno consigliata gli uo­mini della scorta. Ma dopo un po’ mi sono rotto i coglioni a portarla sempre nella fondi­na sotto la giacca. Spesso me la dimenticavo a casa, così ce l’ho lasciata».

A sparare chi ti ha insegnato?

«Avevo imparato sotto la naia, al Car di Or­vieto. Granatieri di Sardegna».

Tiratore scelto?

«Dattilografo. A quel tempo, 1964, chi sape­va usare la macchina per scrivere era consi­derato un astronauta, un padreterno. Fui tra­sferito a Roma, in ufficio, direzione Posto so­sta e ristoro. Avevo persino l’appartamento privato».

Hai paura d’essere aggredito?

«No. Oddio, magari non ho paura perché non mi è mai capitato... Fra l’altro io sono piuttosto reattivo, purtroppo. Quindi fini­rebbe male».

Sei una contraddizione vivente: il tuo co­gnome ricorda qualcosa di felpato che at­tenua i colpi. A che età ti sei reso conto che l’omen non corrispondeva al nomen?

«Non ho mai fatto a botte o litigato con gli amici, per cui mi considero tutto sommato un mite. Senonché mi capita una cosa stra­na: mi trovo in questa stanza, con la mia mac­chinett a (la Olivetti Lettera 22, ndr) , i miei libri, i miei dizionari e capisco che in quel momento, davanti al foglio bianco infilato nel rullo, sono fuori dalla realtà. La testa è in ciò che devo dire. Mi sembra di non avere nemmeno i piedi per ter­ra. Perdo ogni timidezza e bado solo a mettere sul­la carta il mio pensiero in modo tale che susciti nel lettore le stesse sen­sazioni che sto provan­do io mentre scrivo».

Il tuo primo diretto­re, monsignor An­drea Spada, che inter­v­istai nel 1998 a Schil­pario, in Val di Scal­ve, dove s’era ritirato a vivere ormai ultra­novantenne dopo aver diretto per più di mezzo secolo L’Eco di Bergamo, mi confi­dò, tessendo peraltro le tue lodi: «Feltri l’è svèrgol». Che avrà in­teso dire?

«Be’,tu l’hai capito, per­ché si dice così anche dalle tue parti, è la lin­gua della Serenissima. Scentrato, sghembo. Un giudizio che condivi­do. Solo che non ti ha raccontato l’episodio più divertente. Una mat­tina entro in redazione, un corridoio lungo, sem­brava quello di unalber­go. Esce da una delle stanze il monsignore e comincia a coprirmi d’improperi, urlando come un ossesso, per un articolo uscito quel giorno. Dopo un attimo di smarrimento, intuisco che si riferisce a qualcosa che non avevo scritto io, solo che non ero nemmeno in grado di farglielo pre­sente, non riuscivo a infilarmi nella sua inte­merata. Alla fine, balbettante, mi discolpo. E lui,senza abbassare il tono di voce: “Fa ne­gòtt! Perché te se bambo anca te come tuti i òter!”, fa niente, perché sei sciocco anche tu come tutti gli altri».

Svèrgol, scentrato, rispetto a che cosa?

«Do quest’impressione,di non essere affida­bile. È quello che ripete sempre anche Silvio Berlusconi: “Bisogna stare attenti, perché a questo qui non si può dire niente, si offende. Se gli girano le balle, va a casa e fa un altro giornale”».

Riconosci d’avere una morale adattiva, che modifichi a seconda degli incarichi e delle circostanze?

«Sì. Uno spirito camaleontico. Non lo faccio per interesse: solo per adattarmi al lavoro che mi è richiesto. Però alle linee fondamen­tali della mia morale, che sono la lealtà e la franchezza, non ho mai derogato. Mi dico­no: ma tu eri segretario provinciale dei giova­ni socialisti e sei diventato anticraxiano. Per forza, mi sono accorto che il Psi s’era chiuso in una torre d’avorio e tutti rubavano. Mi di­cono: poi sei diventato leghista. In quel mo­mento era giusto esserlo, oggi vedo che Um­berto Bossi difende le Province e allora lo so­no molto meno. Mi dicono: adesso come mai sei berlusconiano? Non è che sono berlusco­niano, ma se non faccio il tifo per Berlusconi per chi dovrei farlo? Per Bersani? Per Veltro­ni? In politica non puoi combinare nulla, ha ragione il Cavaliere. Qualunque cosa tu fac­cia, scontenti sempre qualcuno e perdi con­sensi. Ti ritrovi contro l’opposizione, i sinda­cati, il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale. Insomma, non riesci a muo­verti. Parte una legge vi­ola e torna indietro bian­conera: obiezioni, com­promessi, limature. La Prima repubblica mi fa­ceva schifo, speravo che la Seconda fosse miglio­re. Adesso mi rendo con­to che non lo è».

Dirigeresti Il Manife­sto o L’Unità? Oppu­re c’è qualcos’altro nella tua vita che non faresti mai, assoluta­mente mai, per nes­sun motivo?

«Più che Il Manifesto, m’intriga L’Unità. Dal punto di vista professio­nale sarebbe un diverti­mento pazzesco. Chia­ro che non lo potrei fare, i lettori mi sommerge­rebbero di insulti. Però mi piacerebbe diriger­la. Che cosa non farei mai... Boh, non so, a vol­te temo d’essere onesto per paura, per viltà. Solo la violenza fisica per me è inconcepibile».

Feltri direttore del­l’ Unità. Riaffiora il vecchio bolscevico che è in te.

«La storia della mia pre­dilezione infantile per l’Urss è una leggenda metropolitana. Sempli­c­emente vivevo a Berga­mo, dove tutti votavano per la Dc. A 13-14 anni il concetto teorico del­l’ uguaglianza mi affasci­nava, così mi parve giusto schierarmi con gli indiani, anziché con i cowboy, come faceva­no i bambini al cinema parrocchiale. Poi co­minciai a leggere che in Russia non c’erano i partiti, imperava la dittatura del proletaria­to, vigeva la tetraggine. La simpatia per gli indiani svanì».

La vocazione al giornalismo a che età è arrivata?

«Fin dalle elementari. Portavo a scuola L’Eco e anche Il Giornale di Bergamo e li leg­gevo di nascosto durante le lezioni, tenendo­li sotto il banco. Mi piaceva la cronaca nera».

Eppure nel 1962 cominciasti a collabora­re all’ Eco come critico cinematografico.

«Non perché m’interessasse il cinema. Pur di entrare in un quotidiano mi sarei ingegna­to anche a seguire la musica sinfonica o la pallacanestro. Per primo mi diedero da re­censire un film di Jean Luc Godard, non chie­dermi il titolo, non me lo ricordo. Poi Il posto di Ermanno Olmi. Ero un fanatico di Olmi, bergamasco come me. Una volta arrivò in città Pietro Bianchi, detto Pietrino, leggen­dario critico del Giorno, che mi disse: “Ah,tu sei Feltri? Come critico non vali una cicca, però sei un cronista di razza”. Mi sarei spara­to. Non mi rendevo conto che m’aveva fatto un grande complimento».

Dimmi la verità: da quanti anni non vai al cinema?

«Per un sacco di tempo sono rimasto fermo a Ben-Hur . Ora due volte l’anno riesco ad an­darci. L’ultimo film che ho visto è stato Go­morra. Meno noioso del libro, devo dire».

Al giornale della Curia chi ti presentò?

«Monsignor Angelo Meli, il priore di Santa Maria Maggiore che aveva scoperto i resti mortali del condottiero Bartolomeo Colleo­ni. Mi preparò all’esame di maturità magi­strale da privatista. Italiano, latino, filosofia, storia: m’insegnò tutto lui. Un giorno sbottò: “Te podereset fa ol gior­nalista”. A me tremava­no le ginocchia: era il so­gno della mia vita. D’istinto sarei portato a detestare i preti. Invece mi considero l’unico mi­scredente clericale. Pro­vo una tale venerazione per monsignor Meli che per estensione la river­so su tutti i sacerdoti. Sai, a volte capita che ti venga voglia di scrivere: questi preti bisognereb­be prenderli a calci in culo... E lì, zac, mi mor­do la lingua. Perché rive­do il priore con le calze rosse, piccolo, magro, sempre elegantissimo, fisicamente fragile. Un uccellino simile al cardi­nal Tonini».

Poi s’accorse di te Ni­no Nutrizio, il fonda­tore della Notte.

«Mi ricevette in piazza Cavour, a Milano, nel Pa­lazzo dei giornali. Già t’intimoriva dando del voi. Fu di una concisio­ne spietata, come nel suo stile: “Se L’Eco di Bergamo , che è il giorna­le più brutto del mondo, non vi ha ancora assun­to, mi viene il sospetto che siate cretino. Vi ter­rò in prova per tre mesi. Se vi dimostrerete all’al­tezza, e lo ritengo assai improbabile, sarete assunto. Altrimenti tor­nerete a fare il collaboratore dell’ Eco , nell’in­teresse vostro e soprattutto nostro”. Uscii tra­mortito dal suo ufficio. L’antivigilia di Natale una prostituta venne sgozzata mentre taglia­va una fetta di panettone per la figlioletta di due anni. La bimba fu trovata accanto al cada­vere della madre a paciugare col sangue. Ci scrissi una storiona. Alle 14 mi precipitai in edicola a comprare La Notte . Guardai subito l’ultima pagina, quella di Bergamo Notte . Niente, nella cronaca locale non c’era trac­cia del mio pezzo. Tornai in redazione affran­to: il giorno più triste della mia vita. Dopo un po’ squillò il telefono di bachelite nera, alzai la cornetta: era Nutrizio. Mi mancava il respi­ro. “Non siete cretino. Vi assumo”. Non m’ero accorto che in prima pagina campeg­giava il titolone “Delitto di Natale”, con sotto il mio articolo e la mia firma».

Qual è stato il momento più emozionan­te della tua carriera?

«Sono stati due, entrambi al Corriere : l’arre­sto di Enzo Tortora, del quale presi subito le difese, e l’alluvione in Valtellina».

Pensavo la prima nomina a direttore di una testata nazionale.

«Quando Giorgio Fattori, amministratore delegato della Rcs, nel 1989 mi offrì la dire­zione dell’ Europeo , ero molto perplesso. Per me fare l’inviato speciale del Corriere rappresentava già il massimo. Non ho la libi­dine del potere. Che poi quello di direttore è un potere del menga, lo sai bene anche tu. Il settimanale mi servì per mettermi alla pro­va, ma ero condizionato dall’ambiente ideo­­logicamente ostile, ricorderai che accoglien­za ebbi: due mesi e mezzo di sciopero. Solo all’ Indipendente riuscii a scatenarmi: da 18.000 a 126.000 copie. Vedevo la tiratura che saliva, saliva, saliva e avevo la conferma d’essere nel giusto. Conosco l’obiezione: “Feltri fa i giornali in un certo modo solo per vendere tanto”.Non trovo nemmeno l’argo­mento per replicare. Mi sembra un’accusa talmente imbecille. Mai conosciuto nessu­no che faccia i giornali per lasciarli invendu­ti in edicola».

Quando ti definiscono l’erede di Indro Montanelli, nel tuo intimo quale reazio­ne hai?

«Non provo soddisfazione, perché non è co­sì. Lui aveva qualità che io non ho. Dire che mi dispiaccia sarebbe ipocrita. Ma dentro di me so che non è vero».

Nel 1995, dopo che lo avevi sostituito alla direzione di questo quotidiano, Monta­nelli ebbe a dire di te: « Il suo Giornale con­fesso che non lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferi­sce non vedere. Comunque, non è la for­mula ad avere successo, è la posizione: Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti!».

«È esattamente quello che fece Montanelli per tutta la vita, tant’è che riuscì persino a diventare un’icona della sinistra. Io mi sono limitato ad adottare la sua formula giornali­stica. Ma l’ho realizzata meglio perché mi sono sempre esposto, ci ho messo la faccia. Lui invece era come Veltroni: “Sì ma an­che”. Non si schierava nettamente, il suo edi­toriale era così in chiaroscuro che alla fine non capivi mai se fosse chiaro o scuro. Il che non significa che non resti il migliore di tutti noi. Ho venduto più di lui solo perché a me la gente non fa schifo».

Che cosa pensi che apprezzino in te i letto­ri? La capacità di far stecca nel coro? La cadenza pressoché quotidiana degli edito­riali? Il parlar chiaro? La scrittura piana?

«Il fatto di non considerarmi superiore a lo­ro, il tono colloquiale, il trattarli da pari a pa­ri. Mi viene naturale».

Hai mai pensato di monetizzare la tua po­polarità mettendoti in politica, come fe­ce Guglielmo Giannini col Fronte del­l’Uomo qualunque nel 1944?

«Non è che qui al Giornale non faccia politi­ca. Ma almeno posso farla da padrone in ca­sa mia, non da peone».

Fondando un movimento tuo, intende­vo dire.

«No, no, no». (Espressione di disgusto). «Ma come t’è saltato in mente?Le riunioni,i conve­gni, le assemblee, i congressi, le liste elettora­li... Mi romperei i coglioni, diventerei matto».

Non mi hai mai parlato della tua infanzia.

«C’è poco da dire. Da adolescente non lega­vo con i miei coetanei, ero sempre solo. Le domeniche diventavano interminabili».

Che ricordo hai di tuo padre?

«Si chiamava Angelo, era funzionario in Pro­vincia. Morì a 43 anni, morbo di Addison, una malattia della corteccia surrenale. Io ne avevo 7. Me lo ricordo alto, magro, elegante, severo nell’aspetto. Era un avido lettore di quotidiani. Al momento del giornale radio noi figli - Ariel, il primogenito, Mariella e io ­dovevamo stare zitti ed era una dura prova. Entrainella sua camera mezz’ora prima che spirasse. Mi salutò con un cenno della ma­no, mi baciò. Anche se ero solo un bambino, capii subito che sarebbe morto. Non so per­ché, ma lo capii».

Raccontami di tua madre.

«Si chiamava Adele. Doveva lavorare fuori casa per mantenere i tre figli. Era responsabi­le dell’Associazione commercianti, la sera rincasava tardi. Ricordo ancora la sofferen­za tremenda di quelle lunghe attese. A ogni scampanellata che risuonava nel palazzo dove abitavamo correvo ai vetri appannati della finestra per vedere chi stesse entran­do. Ma lei non tornava mai. È morta a 89 an­ni. In assenza di mia madre, sono stato alle­vato dalla zia Tina, sua sorella, una figura che ancor oggi resta scolpita nella mia men­te. Le ho voluto molto bene».

Sei rimasto vedovo a 24 anni.

«Sì, con due gemelline di pochi mesi. Una conseguenza del parto. La mia prima mo­glie si chiamava Maria Luisa, eravamo coeta­nei. A quel tempo lavoravo all’Ipami,l’Istit­u­to provinciale di assistenza materna e infan­tile, cioè al brefotrofio. Impiegato, assunto per concorso. Tenevo i registri degli “infanti esposti all’abbandono”.In pratica davo i no­mi ai trovatelli. La lettera iniziale corrispon­deva all’anno di nascita, come per i cavalli. Esempio: nel 1959 i nomi cominciavano per A, nel 1960 per B, e così via. Avrei anche do­vuto controllare l’orario d’ingresso e d’usci­ta di infermiere, puericultrici e maestre, ma non lo facevo mai. Un giorno presi a calci il timbracartellini».

Ma no.

«Ma sì, e perciò fui trasferito in Provincia a occuparmi delle rette dei manicomi. Metti che la minima fosse 200 lire, da aumentare in base alla fascia di reddito. I parenti dei ma­lati mi facevano pena. E siccome con 200 lire i conti mi venivano anche più facili, applicai la minima a tutti, indistintamente. Quando il segretario generale Livio Mondini se ne ac­corse, mi convocò nel suo ufficio: “Senti, io volevo molto bene a tuo padre. Sarai anche un ragazzo intelligente, non dico di no, ma la tua intelligenza la usi male. Qui non posso tenerti. Cercati qualcos’altro”. E io, che già collaboravo all’ Eco , lo presi in parola».

Con grande apprensione di tua madre e di tua zia, suppongo.

«Be’, sai, i vecchi di una volta non capivano che razza di mestiere fosse quello del giorna­­lista, lo consideravano una via di mezzo fra il commesso viaggiatore e l’attore. Ma come? Hai un posto fisso, di ruolo, e lo lasci? Ragio­navano così».

Il giorno che tu mi assumesti al Giornale, eri ansioso di conoscere il commento di mia madre. Te lo rife­rii: «Vanità, tutta va­nità». Mi parve che ne fossi rimasto mol­to colpito.

(Ride). «Stupendo. Era lo stesso clima che si re­spirava in casa mia».

L’acme della tua vani­tà sarebbe tornare al Corriere come diret­tore, confessa.

«In passato avevo que­sta fissa, lo ammetto. Re­sta il giornale più gran­de, ci ho passato una parte della mia vita. Nel 1996 stava per accade­re. Era settembre, mi pa­re. Una domenica Luca Cordero di Montezemo­lo venne a trovarmi a Bergamo. Fra di noi non c’era frequentazio­ne. Andammo a pranzo al Pianone, un ristoran­te in città alta. E lì mi fe­ce la proposta. Credo che avesse avuto un pre­ciso mandato, perché entrammo nei dettagli. Avrei dovuto essere no­minato agli inizi del 1997, quando in effetti Paolo Mieli se ne andò. Poi qualcuno del giro dell’Avvocato mi riferì che la Fiat ci aveva ri­pensato: in quel mo­mento non potevano permettersi un diretto­re che non fosse appiat­tito sulle Procure».

E oggi per quale moti­vo, se resti il più bravo a rimettere in se­sto i bilanci, non ti chiamano al Corriere, calato di 178.000 copie al giorno rispetto al 2007?

«Capirai, lì ci sono 15 editori, io già fatico ad andare d’accordo con uno solo.Per sistema­re i conti devi far del male: in via Solferino ci vorrebbe la Rivoluzione d’ottobre. La crisi dell’editoria,accentuata da quella economi­ca, è diventata strutturale. Il giornale supermercato è finito. Bisogna passare al giornale boutique, un oggetto di lusso con poche pa­gine, pochi redattori fissi e molti collaborato­ri esterni ben pagati. Il Corriere non sfugge alla regola».

Hai confessato che di notte sognavi di tor­nare in via Solferino e cominciavi a suda­re. Ti capita ancora?

«Sempre. Torno al Corriere, mi rimettono al tavolone che Luigi Albertini aveva copiato da quello del Times e provo una profonda afflizione. Allora chiedo d’essere ricevuto dal direttore e protesto timidamente: in fin dei conti ho guidato otto giornali, promuovetemi almeno inviato. Ma lui mi rimanda nel salone Albertini a fare un lavoro che non mi piace».

L’ultima volta che faccia aveva il direttore apparso nel sogno?

«Quella di Ferruccio de Bortoli, che però non è mai stato mio direttore, era solo mio compagno di banco al Corriere d’Informazione. A Fer­ruccio non l’ho detto. Non vorrei che si mon­tasse la testa».

Facciamo un’ipotesi da fantascienza: Car­lo De Benedetti piglia un colpo di sole, op­pure si accorda col Cavaliere per interes­si di bottega, e decide di chiamarti a Repub­blica al posto di Ezio Mauro. Primo: tu ci vai? Secondo: che Re­pubblica faresti?

«Ti sembrerà ridicolo, ma ho sempre avuto simpatia per Carlo De Benedetti, sono stato ospite varie volte a casa sua in via Ciovassino, qui a Milano. Nel 1995, o forse era il 1996, fui in­vi­tato a pranzo nell’abi­tazione romana del suo socio Carlo Caracciolo. Il quale fu prodigo di elogi. Non mi offrì nien­te, ma dal tono dei di­scorsi si capiva che il colloquio era mirato a studiarmi da vicino. Io me la cavai dicendo che, se fossi diventato direttore di Repubblica, avrei finalmente prova­to l’emozione di perde­re copie. Anche se tu sai benissimo come si dovrebbe fare un giornale come La Repubblica».

No, non lo so. Come si dovrebbe fare?

«Esattamente come lo stanno facendo».

Ti ho visto fotografato con Mauro e tutti i capintesta della Federazione nazionale della stampa, dell’Ordine dei giornalisti e dell’informazione libera, democrati­ca, laica e pluralista a protestare contro la legge sulle intercettazioni. Facevi im­pressione.

«Immagino bene, faceva impressione anche a me. Ma quella legge è un pasticcio. Perché nella filiera dello sputtanamento bisogna pu­nire solo il terminale rappresentato dai gior­nalisti? Le telefonate private, ininfluenti per le indagini, devono essere distrutte, non en­trare nei fascicoli giudiziari. Punto e basta».

Quindici anni fa le copie, come dimostra­sti al Giornale , si potevano raddoppiare. Adesso non più. Che cos’è cambiato?

«Quindici anni fa non c’erano Ballarò , il Tg24 di Sky ogni mezz’ora, il Tgcom, Inter­net, i blog, i social network e tutte quelle me­nate lì. Oggi la mattina, quando ti presenti all’edicola, hai la sensazione d’avere fra le mani il giornale di due giorni prima».

Se tutte le energie che dedichiamo alla politica le applicassi­mo a inda­gare sui rag­giri delle banche, sul­l­e porcherie degli spe­culatori di Borsa, sul prezzo della benzina che resta alto anche quando le quotazio­ni del barile di petro­lio precipitano, sui nemici dei nostri fi­gli, sugli inganni ali­mentari e anche sul­le cose buone della vi­ta, secondo te riusci­remmo a vendere qualche copia in più?

«No. Però faremmo un giornale più completo, migliore. Solo che qui ormai ti querelano non appena intingi la pen­na nel calamaio».

Hai sempre diretto quotidiani d’opinio­ne, che i lettori com­prano soprattutto per il tuo editoriale. A che serve aggiun­gerci tante pagine? Avresti dovuto prece­dere Giuliano Ferra­ra e fondare Il Feltro al posto del Foglio.

«A parte che Giuliano è bravissimo, e sottoli­neo tre volte bravissi­mo, al massimo avrei venduto 1.000 copie in più».

Tra i mostri sacri del giornalismo italia­no, chi ti sta di più sullo stomaco?

«Barbara Spinelli. La uso al posto del Tavor. Al terzo capoverso del suo editoriale domeni­cale sulla Stampa casco in coma profondo».

Chi vorresti portarti al Giornale?

«Tre firme, sempre della Stampa: Massimo Gramellini, Luca Ricolfi e mio figlio Mattia, che però non verrebbe mai. Poi mi prende­rei Ernesto Galli della Loggia, Angelo Pane­bianco, Paolo Mieli e Piero Ostellino dal Cor­riere e con un investimento di pochi milioni fotterei la corazzata di via Solferino».

Daresti un posto da editorialista all’ex di­rettore di Avvenire, Dino Boffo?

«Subito. È un profondo conoscitore del mon­do cattolico e un sociologo della religione. Scriverebbe editoriali eccellenti».

Il nostro amico Renato Farina che fa?

«Fa il deputato. L’Ordine dei giornalisti ne ha decretato la morte professionale. Io non capisco: Adriano Sofri, condannato per omi­cidio, può scrivere dappertutto, da Repubbli­ca al Foglio. Farina no. Ma perché? Chi ha ammazzato? E Piero Marrazzo? Ti risulta che sia stato censurato dall’Ordine?».

Dopo grandi infatuazioni, in te subentra­no rapidissimi disincanti. Nel giro di sei mesi ti annoi di tutto e di tutti: direzioni, giornali, giornalisti, amicizie, politici. Come mai? Che cosa ti servirebbe per non farti appannare il sensorio?

«A Libero sono rimasto 9 anni, un caso limi­te. La ripetitività dopo un po’ mi stronca».

«On fait toujours la même chose», come dice il cinese della Condizione umana di André Malraux, si fa sempre la stessa co­sa. Dovresti saperlo, ormai.

«Sì, ma non riesco a rassegnarmi. Per cui se oggi venissero a propormi la direzione della Gazzetta del Sud o del Messaggero , chiaro che non accetterei, ma la tentazione di farlo sarebbe forte».

Ti annoia anche nutrirti?

«Mi siedo a tavola con appetito. Dopo due forchettate vorrei alzarmi e andarmene. Pro­seguo per noia. Di mio sarei vegetariano, tranne che per il salame. Lo mangio perché non mi ricorda il povero maialino, ma una zucchina».

C’è almeno un sapore di cui non ti sei an­cora stufato?

«Mah, cosa vuoi, a volte mi rompono i coglio­ni persino le sigarette». (Indica il posacene­re). «L’acqua,forse. Mentre scrivo il mio edi­toriale faccio fuori a sorsate una bottiglia di minerale, ma è un movimento meccanico della mano, afferro e ingollo, senza render­mi conto. Meno male che non è vino: sarei perennemente ciucco».

Sei stufo di tutto, eppure non vuoi smette­re di fare giornali.

«Il giornale è la vita. Noi viviamo attraverso le vite degli altri. Smettere di fare i giornali equivarrebbe a smettere di vivere».

Non riesci a immaginarti a far la spesa spingendo il carrello dell’Esselunga. Guarda che tocca a tutti,che c’è di strano?

«Lo so. Non riesco a immaginarmi a fare so­lo quello. È ben diverso».

Perché non hai mai voluto imparare a usa­re il computer? Cervi, a 80 e passa anni, c’è riuscito e non torne­rebbe indietro.

«Non ho mai avuto que­sta esigenza d’imparare a farlo. Figurati, fino al 1989 i pezzi li dettavo al telefono. E poi mi danno fastidio le lucine. Io de­vo vedere la materia. Sul monitor è tutto vago: c’è, non c’è, schiacci un bottone e sparisce tutto. Una follia. Con la fatica che faccio, non posso ne­anche palpare il foglio? Ma scusami! Vuoi mette­re la Olivetti? M’incaz­zo, sacramento, mi s’in­castrano i martelletti, s’attorciglia il nastro, la scuoto... Se mi viene ma­le l’articolo, do la colpa a lei. Una fisicità che col computer va persa».

In compenso utilizzi moltissimo gli Sms.

«Sono talmente pigro, che preferisco scrivere piuttosto di telefonare. Mi ha insegnato mia fi­glia Fiorenza. Siccome il dizionario automati­co non prende tutte le parole, è un esercizio fantastico per trovare i sinonimi».

L’amicizia esiste?

«Io ci credo. Nella vita contano la forza e l’amo­re. Il resto non conta».

Passi per essere un tombeur de femmes.

«È vero, ma io non me ne sono mai accorto».

Tua moglie, Enoe Bonfanti, se n’è fatta una ragione o ci sta male?

«A mia moglie ho dato tutto quello che pote­vo dare sul piano del sentimento e della

gra­titudine. Era maestra all’Ipami, ci sposam­mo un anno dopo che ero rimasto vedovo. Anche sul piano materiale non le ho mai fat­to mancare nulla. Io non ho niente. È tutto suo. E non spende un soldo».

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL'INTERVISTA A VITTORIO FELTRI

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