Arisio: "Sono pronto a replicare la marcia dei 40mila alla Fiat di Pomigliano"

Il leader che 30 anni fa ricevette i complimenti da Reagan: "Il lavoro si difende lavorando. A quelli che lo rifiutano dico: domani saranno gli stranieri ad assumervi come sguatteri"

Arisio: "Sono pronto a replicare 
la marcia dei 40mila 
alla Fiat di Pomigliano"

Il torinese Lui­gi Arisio sfog­gia ancora i baffi a manu­brio da «Lech Walesa della Fiat», come lo ribattezzò Gianni Agnelli, ben­ché a 84 anni suonati dimostri più che al­tro una certa somi­glianza con Vittorio Emanuele III, rafforzata dal metro e 70 di statura.L’organizzatore del­la marcia dei 40.000, che giusto trent’anni fa segnò uno spartiacque nella storia politica, industriale e sindacale d’Italia, se li fece cre­scere nel 1981 e da allora non li ha più taglia­ti. Non fu vezzo estetico, ma istinto di soprav­vivenza. Rimossi dopo 35 giorni di sciopero i picchetti davanti alle fabbriche, lavato il san­gue dei «krumiri» presi a sprangate, sepolto il povero caporeparto Vincenzo Bonsignore che era stramazzato a terra fulminato da un infarto a soli 48 anni mentre cercava di forza­re il blocco al cancello 33 di Mirafiori, ad Ari­sio era giunto da Piero Fassino il sorprenden­te invito per un pubblico confronto al Festi­val dell’ Unità. Dopo tutto quello che aveva passato, gli parve prudente non farsi ricono­scere mentre fendeva il muro di militanti ra­dunati al Parco del Valentino. E infatti era già salito sul palco quando la moglie, confu­sa tra il pubblico, sentì un attivista ringhiare: «Quel figlio di puttana di Arisio non è venuto!». All’annuncio che si trattava dell’uomo con i baffi, scoppiò un parapiglia. Finito il dibattito, Fassino non trovò di meglio che prendersela con l’ospite: «Certo che sei an­dato giù pesante...». Lui replicò: «Che ti cre­devi? Di farmi venir qua a intonare le cante alpine?». Dovette essere riaccompagnato a casa dalla scorta di Fassino, con una gazzel­la dei carabinieri di rinforzo.
Sempre stato così, l’Arisio. Abituato a par­lare chiaro e a dire quello che pensava an­che negli anni in cui il solo pensare senza parlare costituiva un motivo sufficiente per finire nella lista dei morituri. Da quel 14 ottobre 1980, che lo vide per le strade di Torino alla testa dei quadri intermedi, non è cam­biato: «Se alla mia età me la sentirei ancora di marciare su Pomigliano d’Arco,di andare davanti ai cancelli ad arringare i lavoratori? Certo che me la sentirei! Ma ai dirigenti della Fiat dico anche: attenti, stravincere non convie­ne mai».
Dalla sua casetta di Castellamonte, sulle colline del Canavese, dove viene a rifugiarsi nei fine settimana e du­rante l’estate, l’ex lea­der dei 40.000 assiste sgomento a liturgie che credeva consunte: la fiaccolata «Per il futuro dello stabilimento», i di­rigenti che protestano accompagnati da mo­gli e figli, l’accordo zop­po f­ra sindacati e azien­da con Cisl e Uil favore­voli e Cgil contraria, il referendum per riporta­re in Campania la pro­duzione della nuova Panda trasferita in Polo­nia, la sorpresa di un 37,8% di riottosi che nel segreto dell’urna prefe­risce la chiusura della fabbrica alle condizio­ni poste da Torino per la ripresa dell’attività. Manca solo, Dio non vo­glia, la violenza.
Nel 1980, quando da semplice caporeparto delle sellerie fu catapul­tat­o nella Storia e un po­liziotto motociclista della prefettura gli reca­pitò a casa una lettera indirizzata semplice­mente «Mr Luigi Arisio, Fiat, Turin, Italy» nella quale il presidente ame­ricano Ronald Reagan si congratulava «with sympathy» e lo invitava alla Casa Bianca, la guerriglia gli entrò persino fra le pareti do­mestiche. Il suo secondogenito, Renato, «un idealista, un ingenuo» che oggi ha 55an­ni e nonostante la laurea in scienze politiche continua a occuparsi di gas di scarico alla Fiat, «militava nella Cgil, forse nel Pci, mi contestava, e dire che ero stato io a farlo assu­mere, pensi che vergogna», anche se poi il giovanotto si emendò agli occhi del padre battezzando, certo involontariamente, le sue bimbe Susanna e Margherita, come la sorella e la figlia dell’Avvocato.
Dopo la prematura scomparsa della mo­glie Emma Saracco, da cui ebbe anche Riccar­do, che oggi ha 57 anni e fa l’anatomopatolo­go all’ospedale Sant’Anna di Torino, Arisio decise di risposarsi e da perfetto aziendalista qual è la scelta cadde su una sua operaia, Franca Montalto, addetta ai cavi elettrici nel­la catena di montaggio della 500, che gli ha dato un terzo figlio, Roberto, 37 anni, tecnico alla Comau. Gruppo Fiat, naturalmente.
Uomo di fedeltà sabaude, il capopolo abi­tuato a dire «poscia» al posto di «dopo». So­prattutto in fatto di auto: «Ne ho avute una trentina, tutte Fiat. Soltanto una volta ho tra­dito, prendendomi una Lancia Integrale ros­so Ferrari che andava su per i muri». Tradito per modo di dire visto che la Lancia, oggi un marchio Fiat, «stava a quattro pedalate da ca­sa, in Borgo San Paolo, dove sono nato, e fu il mio primo amore». Vi venne assunto nel 1940, finita la terza avviamento, e vi rimase dieci anni, calibrista nel reparto utensileria.
Mai avrebbe immaginato che da lì sareb­be arrivato addirittura a Montecitorio, forte di 11.325 voti di preferenza raccolti nella li­sta del Pri, deputato fino al 1987, quasi sette volte il giro del mondo in aereo sulla tratta Torino- Roma- Torino, presente da buon dove­rista al 92% delle vota­zioni, per poi sentirsi apostrofare nel modo peggiore da un ex colle­ga dello stabilimento di Rivalta: «Arisio, boja fal­cio », boia falso, «sono contento che tu sia riu­scito a imboscarti a Ro­ma a fare un cazzo dalla mattina alla sera!».
Il lavoro ha contato tanto, forse tutto, nella storia di quest’uomo. Aveva appena 7 anni quando la maestra gli as­se­gnò un tema all’appa­renza facile facile: «Che cosa vorresti come rega­lo di Natale?». Gli altri alunni se la sbrigarono in fretta, chi col Mecca­no, chi con i soldatini di piombo. Lui no, bagnò di lacrime il quaderno pensando al padre, di­soccupato da 22 mesi in seguito alla chiusura della Scat, l’azienda au­tomobilistica che era stata fondata nel 1906 a Torino da Giovanni Cei­rano. Alla fine scrisse: «Per Natale desidererei che Gesù Bambino por­tasse un posto di lavoro a mio padre». Un com­pagno di classe, il cui zio era capofficina alla Lancia,raccontò l’episo­dio in casa. Quattro gior­ni­dopo a Giovanni Mar­tino Arisio arrivò una lettera con la bandieri­na blu e lo scudo: «La Signoria Vostra è pre­gata di presentarsi nei nostri uffici di via Monginevro 99 per comunicazioni che la ri­guardan ». Andò. Fu assunto come fresato­re di seconda categoria.
E lei come fu assunto in Fiat?
«Con un concorso per tirocinanti disegnato­ri, nel 1950. Il mio capo a Mirafiori era un eccellente progettista che stravedeva per Stalin e voleva insegnarmi la lingua russa. Durante le campagne elettorali, raccoglieva fuori dai cancelli ivolantini della Dc edel Pli e li nascondeva dentro L’Unità . Giunto in reparto, apriva il giornale e utilizzando un paio di pinze, senza mai toccare i dépliant con le mani, andava a buttarli “da dove pro­venivano”, diceva, cioè nel cesso. Poi con un batuffolo di ovatta imbevuto di trielina disin­fettava le pinze».
Un paranoico.
«Sul libro di testo che mi costringeva a stu­diare, un giorno riuscii a decifrare, sotto la foto di un vecchio apparecchio ricevente, la didascalia in cirillico: “Popov”. Mi venne spontanea una battuta: ma allora è vero che i sovietici si credono gli inventori della ra­dio! Mi tolse il saluto».
Come si diventava capi in Fiat?
«Bastava essere un centimetro sopra gli altri operai e dichiararsi disposti a fare gli straor­dinari. Mio padre, un buon cattolico rispettoso del precetto, non avrebbe lavorato di domenica neanche se minacciato di fucila­zione, mentre io ho sempre creduto nel vec­chio adagio: “Aiùtati che Dio t’aiuta”. Papà mi lasciava per intero, e con disprezzo, i sol­di del lavoro festivo, ripetendomi ogni volta la stessa ammonizione: “Chi lavora di dome­nica se li mangia al lunedì”».
Non sopportava che suo figlio sacrificas­se il terzo comanda­mento alla carriera.
«Carriera... Capirà. Fi­no al 1956 disegnatore in carrozzeria. Poi in fabbrica come capo­squadra. Dal 1968 a Ri­valta, caporeparto selle­rie. Facevamo la 500 col cuscino del posto di gui­da i­mbottito per il presi­dente Vittorio Valletta, che era più piccolo di me e altrimenti non sa­rebbe arrivato a vedere la strada. Non ho mai imitato quel mio colle­ga battilastra che, per ri­conoscenza verso il vi­cedirettore che lo aveva promosso capo, la do­menica mattina anda­va a casa sua a fare la lu­cidatrice umana».
Cioè?
«Indossava due enormi pattine e per ore strasci­nava i piedi su marmi e parquet dopo averli co­sparsi di cera Liù».
In che modo si giun­se al clima d’intimi­dazione che determi­nò per reazione la marcia dei 40.000?
«Attraverso il processo per le schedature. Fu co­sì che le Brigate rosse s’infiltrarono nelle fab­briche. Lei ricorderà quella vicenda, origina­ta da una causa di lavo­ro che tale Caterino Ce­resa intentò nel 1970. Il pretore Raffaele Guariniello si presentò in piena estate negli uffici deserti di via Giaco­sa e sequestrò 354.077 schede personali, che contenevano informazioni sull’orienta­mento politico e le frequentazioni di altret­tanti dipendenti. Da quel momento in poi la Fiat, che in precedenza aveva sempre accu­ratamente selezionato il proprio personale, fu costretta ad assumere cani e porci».
Che intende per «cani e porci»?
«Fiancheggiatori delle Br, assenteisti croni­ci, lavativi, doppiolavoristi che in quattro an­ni riuscivano ad accumularne tre di assen­ze. Io dirigevo un’officina che la Fiat,su pres­sione del sindacato, era stata costretta ad al­­lestire per il personale non idoneo alle lavo­razioni di linea, un reparto di 500 persone dove, accanto a pochi invalidi autentici, pul­l­ulavano agitatori mezzi matti protetti da sa­maritani di tutte le componenti sindacali e politiche. Quattro operai, sorpresi dai sorve­glianti a giocare a calcio in orario di lavoro, vennero da me proposti per una punizione, ma il loro ricorso fu accolto perché l’invalidi­tà non riguardava gli arti inferiori, bensì ma­ni e braccia. Il magistrato sostenne che non si trattava di una violazione contrattuale. Al contrario: l’attività fisica da essi svolta pote­va avere benefici effetti sulla loro infermità. Molte operaie lavoravano a maglia o a picco­lo punto. Tre o quattro riuscivano persino a dedicarsi ad altri lavoretti vecchi come il mondo, coricate sui comodi sedili delle vet­ture di grossa cilindrata».
Non ci posso credere.
«È la stessa reazione che ebbe il suo collega Clemente Granata, cronista della Stampa , quando lo accompagnai a visitare le catene di montaggio della carrozzeria di Rivalta e constatò con i suoi occhi che molti operai riu­scivano a giocare a dama utilizzando come pedine le rosette cad­miate da 30 millimetri di diametro e i dadi esa­gonali da 12. Nel frattem­po altri operai cucinava­no su improvvisati for­nellini elettrici, costruiti ovviamente con mate­riale della Fiat all’inter­no dell’officina e in ora­rio di lavoro. L’aroma delle fritture di scampi e calamaretti invadeva tutto il reparto. Un forni­tore rimase allibito nel vedere quattro operai impegnati in un’accani­ta partita a sette e mez­zo. Si arrivò al caso limi­te di un’invalida al 50%, impacciata nel corpo e nel cervello, che capi­tombolò per terra sca­valcando la trave metal­lica posta a salvaguar­dia degli operai nelle zo­ne di transito dei carrelli trasportatori. Siccome il longherone non era di­pinto col prescritto co­lor arancione, venne di­ch­iarato lo stato di agita­zione. Ordinai che la tra­ve fosse subito pitturata di rosso. Dopo cinque minuti, altra fermata: adesso c’era puzza di vernice. Tutti in sala me­dica. Molti ne approfitta­rono per farsi dare otto o più giorni di malattia. Al­cuni partirono il giorno seguente per il loro pae­se natio al Sud: li rividi dopo un paio di mesi, ristabiliti e abbronzati. Insomma, il caos, l’anarchia assoluta».
Gli italiani s’erano fatti l’idea che al Lin­gotto, a Mirafiori, a Rivalta, a Pomiglia­no, a Termini Imerese la vita fosse disu­mana come nel film La classe operaia va in paradiso, con i lavoratori costretti a inseguire il collega Ludovico Massa, det­to Lulù, campione del cottimo.
«Certo le fabbriche Fiat erano più inquinate e meno sicure di oggi. In saldatura mancava­no le protezioni, mentre adesso per le opera­zioni più faticose e pericolose ci sono i ro­bot. Ma non si può dire che l’azienda fosse insensibile alle tematiche della sicurezza e della salute. In verniciatura fu costruita una cabina dove, per ammissione degli stessi sin­dacati, l’aria era migliore che al Pian della Mussa. Spesso i lavoratori ce la mettevano tutta per farsi del male da soli. Ricordo un operaio addetto al montaggio del serbatoio di benzina della 500. Dopo due o tre ore di turno veniva colto da lancinanti emicranie ed era costretto a farsi ricoverare in inferme­ria. Impiegammo parecchi giorni per capire l’origine della strana patologia: anziché sor­reggere il serbatoio con la mano sinistra e imboccare i dadi dei bulloni con la destra, se lo appoggiava sulla volta cranica e avvitava servendosi di entrambe le mani. In tal modo dimezzava i tempi e questo gli consentiva di fumare a lato della linea. Tre boccate per vet­tura, 900 nel corso del turno di lavoro».
Quali furono le prime avvisaglie della de­riva terroristica?
«Un periodico semiclandestino, che andava a ruba per titoli come “Giù latesta,capo”,co­minciò a pubblicare nome, cognome, nume­ro telefonico e targa dell’auto dei dirigenti “incriminati”, invitando gli aspiranti terrori­sti a farsi giustizia. Un delegato sindacale del­­la Cisl, ex seminarista, indossata una cotta da prete, aprì una processione funebre, salmo­diando volgarità in gregoriano. Seguiva un codazzo di operai con ceri e rudimentali turi­boli. Sgranavano i nomi dei vari capi della sel­leria. Dalla croce di legno che apriva il corteo pendevano, ripugnanti, i testicoli insangui­nati di un toro. L’effetto dell’osceno rosario era reso ancor più terrificante dalla litania fi­nale: “Capi, padroni, ci state sui coglioni!”. Dalle sopraelevate stradali intorno agli stabi­limenti della cintura di Torino cominciaro­no a piovere sassi sulle auto di chi si recava al lavoro nelle giornate di sciopero. Mi vedevo arrivare in fabbrica dipendenti col volto sfre­giato dalle schegge di vetro dei parabrezza».
Erano cominciate le violenze fisiche.
«Andai a trovarne due, gambizzati nello stes­so giorno, al Centro traumatologico. Di un terzo collega, Paolo Fossat, restò la colata di sangue sull’asfalto davanti agli uffici di Rival­ta. Un caporeparto della verniciatura di Mira­f­iori, Cremonesi, rimase incastrato nella por­tiera della s­ua 500 mentre quattro energume­ni la rovesciavano sulla fiancata: sentì la gam­ba crocchiare e spezzarsi. Il fratello più giova­ne di mia moglie, Bruno Montalto, caposqua­dra, fu raggiunto all’orecchio sinistro da un colpo di pistola che lo lasciò mezzo sordo».
Finché il 21 settembre 1979 venne assas­sinato l’ingegner Carlo Ghiglieno, un quadro Fiat, e l’azienda reagì licenzian­do 61 operai in odore di brigatismo.
«Prontamente difesi da Cgil, Cisl e Uil, che sapevano ma tolleravano, perché temevano di farsi scavalcare a sinistra. Andai dal capo del personale, Carlo Callieri, e gli chiesi quanti ne avrebbe poi riassunti. “Stavolta neppure uno”, mi assicurò. In realtà tre o quattro furono ripresi per via del carico di famiglia, com’era avvenuto per un certo Lu­cio Rossi, due volte licenziato e due volte reintegrato per ordine del pretore. Nel covo degli assassini di Ghiglieno fu rinvenuta una brochure della Fiat con la qualifica di tutti i dirigenti: accanto al cognome Arisio, i terroristi avevano aggiunto a penna il nume­ro di targa della mia auto».
Fu mai aggredito?
«M’infilarono dentro i pantaloni l’asta di una bandiera rossa e con quella fra le gam­be, fra calci e spintoni, mi costrinsero a cam­minare alla testa di un corteo. Siccome mi rifiutavo d’impugnare il vessillo, un cireneo comunista reggeva l’asta per me, mentre al­le mie spalle il pazzoide due volte licenziato e due volte riassunto mi prendeva a pedate nel sedere con gli occhi iniettati di sangue».
Riceveva molte minacce di morte?
«Le più angosciose erano le telefonate mute nel cuore della notte. Una mattina arrivaro­no a casa gli addetti di un’impresa di pompe funebri e chiesero: “Siamo venuti per la sal­ma di Arisio Luigi. Dov’è?”. Il postino mi re­capitava lettere minatorie contenenti profi­lattici usati. Una sera, vedendo rincasare mia moglie intorno alle 19, due coinquilini di via Capriolo si salutarono frettolosamen­te. Lei, poverina, li udì bisbigliare: “Sono quasi le 7, tra poco torna Arisio... Se sparano a lui,colpiscono anche noi,meglio andarse­ne”. Che avevo una scorta, Franca lo seppe per sbaglio soltanto dopo sei mesi. Mi venne assegnata una Lancia Gamma blindata da 40 quintali. Tre anni da sorvegliato a vista».
Una vita d’inferno.
«Più che altro per lo stress. Un caposquadra di Rivalta, vedendo allontanarsi in quella ba­raonda la prospettiva della promozione a lungo inseguita con fatica e impegno, fu uno dei primi a crollare: lo videro più d’una volta mentre cercava di accendersi la sigaretta con lo zampillo della fontanella refrigerata. Io stesso un giorno giunsi a infilarmi il cap­potto e ad avviarmi verso l’uscita non appe­na udita la campanella, che però segnava l’inizio del turno e non la fine.Se non m’aves­se fermato un mio operatore, Maccagno, sa­rei certamente tornato a casa, tanto era il sen­so di sollievo che si provava nell’abbandona­re la fabbrica. Ormai avevo perso completa­mente la nozione del tempo e della realtà».
E venne il giorno della marcia dei 40.000.
«La goccia che fece traboccare il vaso fu la morte per infarto del collega Bonsignore mentre cercava di esercitare il suo diritto al lavoro sancito dalla Costituzione. La Fiat ave­va già perso oltre 500 miliardi di lire. Altri 200 se n’erano andati in fumo nell’indotto. Ope­rai, impiegati e capi ci avevano rimesso oltre 60 miliardi di stipendi. Torino era esaspera­ta, il commercio languiva, i facinorosi blocca­vano financo i tram. Decisi di convocare i quadri intermedi al teatro Nuovo. L’idea di sfilare per le vie della città venne da Callieri».
Il che alimentò il sospetto che lei fosse prezzolato.
«Per le 18.000 lettere d’invito ai capi, spedite attraverso l’agenzia Defendini, diedi fondo alla cassa del Coordinamento nazionale dei quadri industria, di cui ero presidente: 17 mi­lioni di lire. Di solito il Comune concedeva il Nuovo gratuitamente. Ma il sindaco comu­nista Diego Novelli, che da bambino era sta­to con me all’oratorio salesiano, dopo dieci giorni mi fece recapitare una fattura di 800.000 lire più Iva 14%, totale 912.000 lire. Un inviato del Tg2 lasciò intendere che la Fiat mi avesse pagato. Gli replicai che la mar­cia del 14 ottobre era stata la nostra festa e che alle feste ho l’abitudine di pagare io da bere per tutti. Gianni Agnelli, che aveva se­guito il servizio televisivo, volle conoscermi. Mi strinse la mano divertito: “Lei, Arisio, ri­battendo in quel modo all’intervistatore, è stato, è stato... impagabile!”».
Quando capì d’aver vinto?
«Quando un distinto signore venne ad ab­bracciarmi e, indicandomi sul bavero della giacca le mostrine da ufficiale degli alpini re­duce dalla campagna di Russia, mi disse piangendo che avevo salvato l’Italia».
Il Pci e i sindacati con­federali non capiro­no.
«Il capogruppo comuni­sta in Comune, Giancar­lo Quagliotti, arrivò a giustificare le violenze sostenendo che anche negli Stati Uniti gli scio­peranti usano le mazze da baseball. L’ho rivisto qualche settimana fa al Salone del libro. Ha am­messo contrito: “Gian­carlo Pajetta, che vede­va lontano, si oppose sempre ai picchetti”».
Al contrario di Enri­co Berlinguer, che da­vanti ai­cancelli di Mi­rafiori promise ai pre­potenti l’appoggio del Pci qualora aves­sero occupato la fab­brica.
«Fassino, a distanza di decenni, è stato costret­to a correggerne il pen­siero, dando un’inter­pretazione più sfumata di quella sciagurata af­fermazione. Fu più one­sto il segretario della Cgil, Luciano Lama, che riconobbe: “Quei 40.000 che sfilavano per Torino non li ha inventa­ti né-Mefistofele né l’av­vocato Agnelli... Noi non avevamo capito niente, né dell’azienda, né dei suoi rapporti con il mercato, che non erano più quelli di 10 o 20 anni prima, né dei problemi della sua effi­cienza e redditività”».
Senta, Arisio, ma eravate proprio 40.000?
«È la domanda che mi pose Agnelli nel 1999, alla cerimonia per il centenario della Fiat. Gli risposi: cosa vuole, Avvocato, se Lama ha fatto questa cifra, non pretenderà che osi contraddirlo? Secondo me, 30.000 c’erano tutti. Fu la rivolta delle persone serie contro gli arruffoni della conflittualità permanen­te, come scrisse Montanelli. Che aggiunse: “Non è il caso di contarli, ma è il caso di dire che erano troppi”».
Tre mesi fa Cesare Romiti mi ha detto di lei: «Simpatico e coraggioso. Eravamo tutti un po’ più coraggiosi, allora».
«Simpatico anche Romiti. Quando incontra­vamo Agnelli, mi dava di gomito: “Arisio, non focalizzi l’attenzione dell’Avvocato so­lo su di lei!”. Il coraggio m’è venuto a 18 anni, quando, chiamato alle armi nella Repubbli­ca sociale italiana, agli alleati nazisti preferii i partigiani di Giustizia e libertà della Val Pel­lice, quelli col fazzoletto azzurro, i non co­munisti. Minacciai più volte di rompere il grugno ai delegati sindacali che mi davano del fascista».
Quale pensa che sia stato il suo merito?
«L’ha sintetizzato bene Camillo Brero, autore dell’ Enciclopedia pie­montese , in una poesia sulla marcia dei 40.000: “’ T l’avie rangiaje ij tond ant la stagera ”, hai ri­messo in ordine i piatti nella credenza. L’Avvo­cato mi chiese che cosa significasse stagera , pensava che fosse una parola francese. Lo stes­so quando gli riferii la frase che mia madre mi diceva alla sera dopo aver lavato i piatti con la polvere di pietra pomi­ce: “ Vate a cogiè che ’it tacôna...” , vai a coricarti che te li taccono. Sottin­teso: i vestiti che indos­savo. Gli unici rammen­dabili, perché non ave­vamo certo il ricambio».
Che cos’ha capito del­la vertenza di Pomi­gliano?
«Che togliere qualcosa a qualcuno, soprattutto dopo che l’ha conside­rata definitiva, è sem­pre dura. Ma tra la mine­stra e la finestra, io scel­go ancora la minestra. Qui il problema di fon­do è uno solo: s’è giusta­m­ente stabilito che il be­nessere vada ripartito fra un maggior numero di individui, ma nessu­no è disposto a cedere qualcosa. Vogliamo tutti lavorare meno, divertirci di più, man­giare meglio, stare comodi. Però la torta è quella che è. Ho letto sul Corriere della Sera di un impiegato, separato dalla moglie, sen­za alloggio, costretto a dormire in auto, che si lamentava perché gli manca il suo pac­chetto di Marlboro al giorno. Ma chi gli ha ordinato di fumare? Abbia pazienza, io con i 4,55 euro delle sue sigarette ci mangio».
Non crede che la via maestra sarebbe quella di far lavorare solo coloro che han­no accettato l’offerta della Fiat e lasciare a casa chi ha votato «no» al referendum, creando una nuova società nella quale riassumere i volenterosi, come s’è fatto per Alitalia?
«In teoria sì. Ma penso che molti abbiano vo­tato contro soltanto per non vedersi togliere il saluto dai compagni più esagitati. Anche se ho 84 anni e una valvola aortica di plasti­ca, me la sentirei di andare laggiù a spiegar­gli che in fin dei conti non è questo il mondo per il quale abbiamo tanto faticato. Però è il mondo nel quale viviamo e, se vogliamo star­ci dentro, dobbiamo lavorarci ancora per smussare gli spigoli che ci pungono. Quello che non accetto è che mi si venga a dire che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possi­bilità. In fin dei conti ci siamo sempre tolti di bocca il pane che intui­vamo sarebbe tornato utile ai nostri figli e nipo­ti. A differenza dello Sta­to, che invece ha sem­pre sperperato».
Anche a Pomigliano c’è voluta una sfilata delle persone ragio­nevoli per aprire gli occhi agli italiani.
«Ma lo sa quante volte, in questi trent’anni,po­litici e imprenditori so­no venuti a dirmi: “Ari­sio, è ora di fare un’al­tra marcia”?».
Chi, per esempio?
«Francesco Cossiga, tanto per dirne uno. Marco Pannella, nel mio primo giorno da de­putato, ebbe la sfronta­tezza di avvicinarmi al­l’ingresso di Montecito­rio: “Arisio, se non la fa­cevi tu la marcia dei 40.000, dopo 15 giorni l’avrei fatta io”. Ma la ve­rità è che fui spedito a Roma perché non rom­pessi le balle a Torino. All’ufficio del persona­le arrivarono a dirmi: “Lei devi scegliere con chi vuole stare”».
Non capisco.
«Be’, m’era scappato di accennare a una mag­giore capacità contrat­tuale dei capi intermedi. Mi sarebbe bastato alzare il telefono per diventare il segretario confederale dei quadri in uno qualsiasi dei sindacati della Triplice. Certo avrei escluso di rivolgermi alla Cgil».
Non può lamentarsi: la Fiat le ha assunto due figli.
«Non ho mai chiesto niente, mi accontento dei quattro fagiolini che vede qui fuori nel­l’orto. Ma qualcosa mi dovevano. A Renato, il sinistrorso, l’ho sempre rimproverato: po­tevi diventare re d’Italia, col cognome che porti, invece hai voluto fare il rivoluzionario senza avere le polveri».
Comunque nel 1983 mise all’incasso la notorietà conquistata facendosi elegge­re deputato nelle liste del Pri.
«Me lo chiese Giovanni Spadolini perché portavo voti. Non Susanna Agnelli, come di­cono».
Per quattro anni passati sugli scranni del Parlamento adesso lo Stato le versa pur sempre 3.108 euro di pensione al mese.
«Mi fa piacere che si scriva, perché gli amici pensano che ne guadagni 10.000. Invece al netto sono 1.800».
Un operaio se li sogna.
«Infatti mia moglie per 16 anni di lavoro pi­glia 298 euro. Però sono stato anche uno dei pochi che, appena eletto, ha rinunciato al po­sto in Fiat, anziché mettermi in aspettativa».
Era soprannominato «figlio di De Gaspe­ri». Perché finì nel partito degli anticleri­cali?
«I democristiani arrivarono a offrirmi la can­didatura un minuto dopo. Ma era già scritto fin dall’inizio che non dovessi ingrandirmi troppo neppure in politica. Dopo una sola le­gislatura il Pri mi lasciò a casa. Per carità, non mi lamento. In fin dei conti al funerale del­l’Avvocato mi hanno portato fin sul tetto del Lingotto in auto, facendomi saltare la lunga coda. Sono stato ammesso nella camera ar­dente come uno di famiglia. Susanna mi ha abbracciato, Gianluigi Gabetti pure. Lì ho vi­sto per la prima volta John Elkann. È stato af­fettuosissimo. Mi sono presentato: mi chia­mo Arisio. E lui: “Lo so,lo so. Chi non lo sa?”».
Sergio Marchionne lo conosce?
«L’ho incontrato due anni fa alla commemo­razione di Gianni Agnelli nel cimitero di Vil­lar Perosa. A differenza di Vittorio Ghidella, buon ingegnere meccanico, e di Cesare Ro­miti, grande finanziere, Marchionne ha una dote indispensabile per i tempi presenti: in­tuisce i cambiamenti e sa adattarvisi prima che il futuro gli imponga di subirli».
Come mai Carlo De Benedetti resistette in Fiat appena 100 giorni?
«L’errore di Umberto Agnelli non poteva so­pravvivere più a lungo. Aveva ambizioni smi­surate».
Affermerebbe in tutta coscienza di non aver mai visto la Fiat sfruttare i suoi di­pendenti?
«Le rispondo con la frase che mi disse un operaio appena assunto, proveniente dal profondo Sud: “Sono salito fino a Torino per­ché al mio paese trovavo lavoro sì e no tre o quattro mesi l’anno. Qui spero che mi sfrutti­no meglio”».
Valletta negli anni Cinquanta accompa­gnò Indro Montanelli in giro per Torino, pullulante di immi­grati meridionali che venivano a lavorare alla Fiat. «E questi?», chiese il giornalista, vedendoli accampati sotto i ponti. «Io gli of­fro un posto di lavoro, dove vanno a dormi­re non è affar mio», gli rispose Valletta. «Ma si rende conto che in tal modo fra vent’anni saranno tutti comunisti?», gli obiettò Montanelli. «Certo che me ne ren­do conto», replicò il presidente della Fiat, «però tra vent’anni io non ci sarò più».
«Che cinismo! L’impre­videnza è il peggior difet­to per un leader».
«Il lavoro si difende la­vorando », c’era scrit­to sui cartelli che inal­beraste trent’anni fa. E quando lavoro non ce n’è più, come oggi?
«Questa è una delle pre­rogative collegate alla precarietà umana. Ma guai rassegnarsi. Se non fossi stato prigioniero di quel quel grave difetto studiato da Karl Marx, l’essere un lavoratore dipendente, avrei fat­to di sicuro qualcos’altro nella vita. Uno dei miei operai si licenziò per diventare robivec­chi. Anni dopo venne a trovarci in fuoriserie davanti ai cancelli di Rivalta».


Agli italiani che rifiutano i lavori più umi­li per lasciarli fare agli extracomunitari che cosa si sente di dire?
«Saranno questi stessi extracomunitari, do­mani, ad assumervi come sguatteri».
(502. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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