Armata Prodi allo sbando

Il centrosinistra dà il suo peggio ogni volta che sente la vittoria in tasca. Ora, dopo le primarie per candidare Romano Prodi, lo stato d'euforia sta già producendo guasti. Disastri li annunciano i tanti che si sentono ministri (e direttori di reti o tg Rai). Guai fa intravedere Piero Fassino che s'interroga ogni giorno su quali e quanti incarichi dovrà mantenere per contare di più. Francesco Rutelli e Massimo D'Alema si danno, invece, da fare per salvare la pelle: l'uno fa il prodiano per far dimenticare i passati distinguo, l'altro fa il girotondino contro Silvio Berlusconi, per non far ricordare l'appoggio all'Unipol che non è piaciuto ai girotondini veri (corazzati dal sostegno del Corriere della Sera). Rifondazione e i Verdi hanno saltato la prima fase della nuova stagione: quella di governo. Gli uomini di Fausto Bertinotti sono passati di fatto all'opposizione a Bologna, quelli di Alfonso Pecoraro Scanio in Val di Susa.
Solo Prodi, in fin dei conti, resta lo stesso in ogni occasione: bofonchia banalità quando è ottimista, bofonchia banalità quando vede nero. Cambiano solo i suoi connotati facciali: distesi e ilari in un caso, tirati e rancorosi nell'altro.
In questo bailamme l'idea di raggruppare la parte centrale della coalizione del centrosinistra in un'unica formazione politica non manca di razionalità. Già per svolgere un ruolo propositivo in Parlamento l'opposizione avrebbe bisogno di una forza unitaria e organizzata che desse un senso di direzione ai mille rivoli che compongono l'armata di Prodi (da Clemente Mastella a Bertinotti). Figurarsi se il centrosinistra dovesse mai assumere un ruolo di governo.
D'altra parte anche il centrodestra, esaurita la fase movimentistica, per consolidare la sua capacità di fare politica (non sempre, per così dire, entusiasmante), deve fare la stessa scelta. Si vedrà se la campagna elettorale a tre punte (Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini) consentirà di riprendere l'impegno unificatore che comunque Ferdinando Adornato ha impostato in modo corretto partendo dalla riflessione sulla storia politica-culturale dell'Italia e su come un moderno partito liberal-conservatore può e deve a questa collegarsi.
A sinistra, invece, la discussione è partita male: dalla ricerca di un modello straniero da importare (democratici all'americana, socialdemocratici alla tedesca, laburisti all'inglese), senza concentrarsi sulle correnti ben individuabili che costituiscono il nucleo del centrosinistra (quelle cresciute nei centrosinistra classici e quelle formatesi nel Pci), ed evitando una riflessione sul punto di cesura, che è stato il manipulitismo del '92, tra queste esperienze e la storia italiana dell'ultimo decennio.
Senza riflessione storica concreta la vera guida di quel che si muove a sinistra ha finito per essere il politologo Arturo Parisi. È lui che ha inventato i referendum di Mario Segni, il nome Ulivo (efficace sigla neutro-buonista del centrosinistra del '96), l'Asinello prodiano che scompaginò i piani di Franco Marini e D'Alema, le primarie di questo ottobre che aprono una nuova fase politica.
Parisi è politologicamente geniale, ma concretamente un disastro: perché una formazione politico-sociale che invece che su un ruolo nazionale si fonda su idee astratte finisce sempre per delegare a altri, dotati di peso e agganci veri alla realtà, la guida dei processi.

Com'è successo dal '92 in poi: la sinistra al governo ha significato potere ai giudici, a Bruxelles, a un establishment bollito e a sindacati spompati. Mai ci si è trovati di fronte a una guida nazionale realmente autonoma.

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