Arrivano i nostri con un arsenale di aiuti

È la prima nave a giungere in Libano con un carico umanitario di 112 tonnellate

Luciano Gulli

nostro inviato a Beirut

Faceva un bel vedere, ieri mattina, il tricolore che sventolava allegro sullo specchio di poppa della nave San Giorgio. È sempre un bel vedere, del resto, quando la bandiera italiana sbatte sotto cieli stranieri in una di quelle missioni che ci hanno reso celebri, e amati, tra folle di sventurati travolti dal demone demente della guerra. Perché dietro le nostre divise, i nostri mitragliatori e i nostri carri «Centauro» vedono che c’è gente diversa: soldati professionalmente impeccabili che non hanno niente da imparare dai marines e dagli incursori di qualsiasi potenza mondiale che batte terre straniere; ma con una insopprimibile vocazione genetica, per così dire, a dare una mano, a conquistarsi l’affetto e la simpatia di chi ancora magari non ci conosce, e ha bisogno di tutto.
Il lettore perdonerà, se gli parrà di scorgere, nelle righe che precedono, e in quelle che seguono, qualche sbavatura di orgoglio nazionale e un filino di retorica patriottica. Ma quando i rimorchiatori della capitaneria di Beirut hanno cominciato a spingere a tutta forza sulla fiancata sinistra della nostra bella nave, scodellandola dolcemente sulla banchina, una qual certa emozione si è sparsa tra il minuscolo comitato di accoglienza (un gruppetto di cronisti mescolati al nostro ambasciatore Franco Mistretta) che aspettava a petto in fuori di vedersi spalancare il portellone e vedere il gagliardo gagliardetto che svetta sul basco dei nostri lagunari del San Marco.
Ci vogliono bene, in Libano. Ancora adesso, se andate a farvi un giro in auto per la città, o risalite la costa verso Byblos, vedrete mazzi di bandiere italiane appese ai balconi. Sono il lascito della immensa, festosa baraonda cui i libanesi si sono abbandonati durante il Mondiale di calcio, man mano che la nostra nazionale, passo passo, guadagnava i quarti, e la semifinale. Quando poi il fato ci ha messi contro la Francia, e i francesi se ne son dovuti tornare a Parigi con la coda tra le gambe, grazie al fato benigno, è stato il trionfo. Perché qui, dove i francesi hanno comandato per un bel pezzo, col loro sorrisetto di degnazione stampato in faccia, quell’altro tricolore gli sta sul gozzo di brutto.
È il primo carico di aiuti umanitari che sbarca a Beirut. E questo, il pilota Fuad non lo dimenticherà mai. «Comunque finirà quest’altra guerra - dice commosso il pilota del rimorchiatore che ha trainato in porto la nostra nave anfibia - mi ricorderò fin che campo di quello che avete fatto per noi. E lo dirò ai miei figli, e ai figli dei miei figli».
C’era l’ammiraglio Emilio Foltzer, a bordo del «San Giorgio», ed è a lui, e al nostro ambasciatore Mistretta, che il generale a riposo Yahia Raad, responsabile dell’Alto comitato di soccorso libanese, ha espresso la gratitudine per l’assistenza offerta «a tutto il Libano».
112 tonnellate di materiali. Una goccia nel mare, si dirà. Ma poiché il mare davanti a Beirut era costellato ieri mattina da 33 navi da guerra (9 americane, 7 inglesi, 4 francesi, 6 greche, una tedesca, 2 turche, 4 indiane, oltre alle due navi appoggio italiane che scortavano la «San Giorgio»), per i libanesi l’apparizione della «San Giorgio» è stata come vedere i Re Magi, la Befana e Babbo Natale riuniti insieme.
Aiuti destinati alla «popolazione civile non combattente», ha sottolineato l’ambasciatore Mistretta. Operazione non priva di qualche rischio, peraltro, visto che appena la «San Giorgio» ha mollato gli ormeggi, riunendosi al largo con l’«Aliseo», nostra fregata d’appoggio, la Marina israeliana ha spedito due missili sulla periferia sud della città, spianando il poco che è rimasto in piedi nei quartieri di Haret Hreik, Bir El Abed e Rweis.
Ventimila taniche per acqua potabile, migliaia di metri quadrati di plastica con cui allestire tende di fortuna, 136 set da cucina, 17 generatori, 25 serbatoi d’acqua di ogni pezzatura, 5 kit sanitari e 15 kit igienici, 8 tonnellate di medicinali e materiale sanitario e 28 tonnellate di generi alimentari messi a disposizione dalla Protezione civile e dalla Cooperazione. Per non dire dei pannolini, del latte in polvere e degli omogeneizzati destinati agli infanti, e delle due ambulanze e dei tre fuoristrada donati dalla Croce rossa.
Metteremo insieme un ospedaletto, un centro di pronto soccorso fatto di tende in cui ospitare cento persone per volta. La cucina da campo, i gruppi elettrogeni, i farmaci e tutto quel che serve alla bisogna sono già a terra, guardati a vista da sei volontari della Croce rossa.
La guerra continua, mentre il martello israeliano si accanisce su ampie zone del sud agricolo colpendo ancora strade, edifici, veicoli di gente che fugge (altri 3 morti e 14 feriti, ieri) obbedendo ai diktat diffusi da Israele attraverso volantini, sms e interferenze sulle frequenze radio libanesi.


«È una violazione della legge umanitaria», ha esclamato il coordinatore dell’Onu per gli aiuti umanitari, Jan Egeland, confessando di non sapere che i bombardamenti fossero stati fatti «isolato per isolato». E tutto questo mentre la Siria minaccia di entrare nel conflitto, se l’esercito israeliano dovesse avvicinarsi in maniera intollerabile ai suoi confini.

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