Marco Ruffa, l'anarchico dei tatuaggi: "Serve più cultura e romanticismo"

Parla Marco Ruffa: "Ho lottato per far capire che quella di fare il tatuatore era la mia idea"

Marco Ruffa, l'anarchico dei tatuaggi: "Serve più cultura e romanticismo"

“L'anarchia non è fare quello che ti pare, l'anarchia è darsi delle regole prima che te le diano gli altri”. Così parlò De Andrè, Faber, e fabbro della parola. Un aedo del Novecento. Era, quella, un’idea che poco o nulla a che fare con quello che vediamo oggi. L’anarchico di ieri poteva anche essere un terrorista. Un criminale. Ma, prima di tutto, era un idealista. Un romantico, in definitiva. Uno ciò che metteva un’idea, giusta o sbagliata che fosse, al di sopra di tutto. Anarchico e romantico è ancora oggi Marco Ruffa, tatuatore presso T-Shock, in corso di Porta Ticinese a Milano. Carattere ruvido, ma capace in poco tempo di spalancare le porte all’amicizia, mette subito le cose in chiaro: “Giornalista e de ilGiornale. Mio padre lo leggeva, io ho preso una strada diversa: ho fatto il volontario del Leoncavallo, poi mi hanno deluso. Dei tuoi colleghi ne apprezzo solo uno: Massimo Fini”. Sorrido ed estraggo il telefono, perché devo difendermi. Il rischio di essere bollato come pennivendolo è dietro l’angolo. Cerco la mail di cui ho bisogno, l’ultima scritta dall’eterno ragazzo che ora non vede più, e che si conclude con quella che è per me una medaglia al valore: “Finiano di stretta osservanza”. Marco legge e si convince. L’intervista può cominciare. Anzi: prima i preliminari. Estrae un libro e, orgoglioso, dice: “Questo è il quaderno che contiene una parte dei miei lavori dal 1988 ad oggi. Ora è tutto su Instagram e su quelle cagate lì. Ma un libro è fisico, lo si può toccare”. Cominciamo a inquadrare la persona, che ci tiene subito a precisare: “Io e Michele (Tartaglia, ndr) siamo tattooer e non tattoo artist. Loro dicono: ‘Faccio solo questo’. Noi invece portiamo avanti l’idea di una storia: quando una persona entra in studio, eseguiamo quello che ci viene chiesto, senza fare i fighi”. Tutti gli stili, tranne il realistico, precisa: “Perché se non viene fatto bene, dopo due o tre anni fa schifo”.

Qual è lo stile che ti piace tatuare di più, quello insomma che ti dà maggiore soddisfazione?

Sono i tatuaggi grandi. Quelli grossi, perché mi piace andare a mano libera. Uno dei miei fari illuminanti è stato Hanky Panky, il tatuatore olandese Schiffmacher, che fra l'altro ho anche conosciuto. È un “pazzo” che, vedendolo lavorare, mi ha indirettamente insegnato come il tatuaggio debba essere una linea che entra nel corpo. Una linea semplice, pulita, veloce. Che puoi anche permetterti di sbagliare, perché poi dopo riempi con il nero. Personalmente, a me piace fare i tribali. Ho girato tutto il sudest asiatico: Borneo, Malesia, India, Indonesia. Sono andato a studiare queste tecniche abbastanza grezze, soprattutto in India, dove in alcuni posti tatuano in mezzo alla strada con zero igiene.

A questo punto, Ruffa mi indica una fotografia appesa a una parete.

Questa è Higan. Ho conosciuto questi indigeni sul fiume Skrang in Borneo. Ti racconto un episodio: sono arrivato il lunedì e non c'erano bambini nel villaggio. Dopo cinque giorni ho chiesto il motivo. Allora mi hanno portato nel villaggio principale, dove mi hanno mostrato la scuola con i banchi, i libri e i bambini che studiavano. “Possiamo insegnare a scacciare le scimmie ma i bambini vogliono andare nella civiltà e devono studiare”, mi hanno risposto i capi. Mi stavano dicendo che avere la conoscenza era un fattore importantissimo.

L'italiano medio pensa che il tatuatore sia una persona un po' rozza, quasi un criminale senza cultura..

Il tatuatore, se è veramente serio, se è un professionista, è una persona di altissima cultura. Perché il tatuaggio c'è da sempre, nasce nella storia dei tempi. I tatuatori sono persone con le quali puoi parlare ore di conoscenza, di antropologia.

Il centro di questo mestiere è l'uomo con i suoi sogni, le sue paure, insomma...

Esatto. Quando le persone vengono nel mio studio, è importante che lascino fuori l'ignoranza e si aprano. Perché io li tocco. Devono quindi raccontarmi le loro storie e capire l'importanza di ciò che stanno facendo: tatuarsi.

Essendo eterno, il tatuaggio non può essere una cosa stupida.

Certo. Molte volte mi capita di avere dei clienti attempati, 50-55 anni, che mi chiedono di rimettere in ordine alcuni loro vecchi tatuaggi. Io mi rifiuto, dico di no anche se potrei guadagnarci. E questo perché quel tatuaggio che mi chiedono di coprire era un momento di una loro storia risalente a tanti anni prima. Non bisogna mai rinnegare il passato. No remorse.

Hai iniziato a tatuare alla fine degli anni Ottanta, tra il 1988 e il 1989. Hai avuto come riferimento il grande maestro Gianmaurizio Fercioni. Poi chi altro?

Non solo lui. Anche Marco Leoni, Marco Pisa, Gippi Rondinella. I primi ad aver avuto il coraggio di iniziare questo tipo di lavoro.

Erano tutte persone che uscivano dall'Accademia delle Belle Arti...

Io faccio parte di un'idea proletaria, non sono figlio di persone ricche o di borghesi. Ho fatto fatica. Ho lottato per far capire che quella di fare il tatuatore era la mia idea. Ricordo che diverse volte mio papà mi ha portato a vedere il suo lavoro. Lavorava in una ditta: disegnava e vendeva le guarnizioni degli altiforni. Quando avevo 12-13 anni, lui tornava a casa e mi diceva che non gliele compravano. Sai perché? Perché funzionavano e quindi è morto arrabbiato. Voleva inoltre che facessi il suo lavoro. Io invece mi sono tolto questa sua rabbia.

Il mestiere del tatuatore è cambiato?

Certo. Sta seguendo il cambiamento del mondo globalizzato. Una volta c'erano tre o quattro studi di tatuaggi, adesso ce ne sono 300mila. Dentro questo numero ci sono anche giovani umili e in gamba, ma anche una grande fetta di sbarbati che vogliono soltanto fare “i fighi”. Servono poi determinate qualità. Noi tatuatori tocchiamo e facciamo male a persone che non conosciamo. Quindi loro si aprono e si raccontano. Siamo una specie di psicologi.

Tu dici che il fenomeno del tatuaggio si è globalizzato. C'è il rischio di una uniformazione, in senso negativo del termine, del tatuaggio?

Si è un po' perso il linguaggio dei tatuaggi. Sarà colpa anche della Torre di Babele. Alla fine tutti parlano in modo diverso. Mentre prima quei pochi tatuatori che c'erano parlavano allo stesso modo, forte e romantico, ora ognuno parla una lingua diversa. E rimarca il fatto che la sua sia la lingua più bella. Invece dovrebbe essere come una volta, con tanto romanticismo. Rispetto i tempi che cambiano, sia chiaro. Ho fatto il giudice di varie tattoo convention, e sto vedendo da vicino i cambiamenti del settore. Penso che, anche se qualcuno decide di disegnarsi un piccolo infinito sulla pelle, il suo gesto sia uguale a quello che decide di farsi un tatuaggio che ricopre l'intera schiena. In entrambi i casi stiamo sempre parlando di mettere un po' di nero sulla pelle. Bisogna solo fermarsi, andare piano. Dovrebbe rimanere una cosa delicata. E invece adesso anche il salumiere sotto casa mia ha chiuso la vecchia attività per fare quella di tatuatore. Con pessimi risultati, per altro, visto che ha già chiuso.

Hai citato tante volte la parola romanticismo. Cosa significa?

È semplice. È la risposta alla domanda sul perché ho scelto di tatuare. Quando ero ragazzino sono sempre stato un ribelle. Quando avevo dieci anni e vedevo gli uomini, ex galeotti o muratori, con addosso tatuata una rosa dei venti, ero affascinato. Quel disegno mi portava a Salgari, al viaggiare con la mente in altri posti. Penso che sia questa una delle cose più importanti. Romanticismo vuol dire anche convivere con dei sogni, gli stessi che poi, magari quando si avverano, non sono più belli. Ecco: il tattoo è un sogno che dovrebbe rimanere tale. Non dovrebbe essere realtà, anche se quel che faccio è reale. Il romanticismo sta all'inizio della realizzazione di un lavoro. È quel punto in cui ho davanti una persona che non ha tatuaggi e inizia a realizzare qualcosa di romantico e incredibile. Io non salvo vite. Non sono un medico. Però produco felicità e sogni.

Mi colpisce quello che dici perché oggi l'idea del tatuaggio è sempre più distante dal romanticismo e associata alla moda. Non serve una rieducazione al tatuaggio?

Domani verrà qui, nel mio studio, una ragazzina che è la figlia della mia prima fidanzatina. La madre mi ha telefonato per raccomandarsi: “Non sono d'accordo con la sua scelta. Convincila a fare un disegno non esagerato”. Mi chiama poi la figlia tutta entusiasta: “Non vedo l'ora di tatuarmi”. Vedi, il discorso del tatuaggio si pone all'interno della famiglia, nei rapporti tra figli e genitori e via dicendo. Secondo me riguarda anche un discorso di ribellione, fermo restando che adesso sono quasi più ribelli quelli che non hanno tatuaggi. Però, ripeto: anche avere solo un puntino, vuol dire essersi predisposto ad accettare il fatto che una persona che non conosci, il tatuatore, ti tocchi e ti faccia male.

Il tatuaggio è sempre stato un rito di iniziazione.

Oggi questo rito è andato perso. Io tatuo varie cose... Sono passato a fare disegni che riguardano le isole del Pacifico. Dopo anni che le ho riprodotte, le persone a cui le ho realizzate non sono mai state neanche sull'Adriatico. Per questo sono in un momento un po' di stasi. Sono un po' “stanchino”. Io tatuo tutti. Però, su dieci persone che entrano nello studio, io sono felice quando ce ne sono due o tre che vengono a chiedermi dei lavori, che rimarranno sulla loro pelle, e che sanno cosa vogliono e quello che fanno. Al giorno d'oggi la gente non sa cosa vuole.

Ti sei mai rifiutato di fare un tatuaggio?

Mi son rifiutato di tatuare simboli politici, come la svastica o la falce e martello. La mia politica è che se da quella porta entra un ragazzino di 18 anni, senza tatuaggi, e mi chiede di tatuarsi la faccia e le mani, io non lo tatuo. Gli parlo e gli spiego. Se, invece, entra un 60enne interamente tatuato e mi chiede lo stesso, allora accetto senza problemi. Ti racconto un episodio. Nel mio vecchio studio è venuto Sfera Ebbasta, che fa parte di questa nuova generazione di trapper. Gli ho chiesto chi fosse il suo manager e mi ha risposto in modo tosto: “Sono io il mio manager”. È un tipo in gamba, non c'è che dire. Ma ad un certo punto gli ho detto che mi piace Tupac, un tipo che sparava con la pistola vera, mentre lui, a Cinisello Balsamo, spara con la pistola ad acqua.

In quel momento c'erano lui, la sua guardia del corpo - che mi guardava già male - il driver e un quarto tipo che non ho mai capito chi fosse. ​La società di oggi è materialista e capitalista. Si guarda solo al materiale. Ti fai i denti con mille diamanti e poi non sai nemmeno che quei diamanti arrivano da posti dove la gente muore per estrarli.

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