L'Attività del dicastero vaticano per la Cultura in questo anno di pandemia, il Covid, Biden e la nuova presidenza americana, i social e Sanremo, la Curia divisa e gli attacchi a Papa Francesco. Il cardinale Gianfranco Ravasi, dal 2007 presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura della Santa Sede, apre al Giornale le porte del suo dicastero e racconta le sue attività.
Fine teologo, ebraista, uomo di spessore e di alto profilo culturale, il porporato ha all'attivo migliaia e migliaia di convegni e conferenze in ogni angolo del mondo. In Italia, «non c'è una provincia in cui non abbia parlato almeno una volta», sorride. Nel suo lungo curriculum ci sono, tra gli altri titoli, anche una ventina di lauree honoris causa, e il primato di essere stato l'unico cardinale a entrare nella sala dei Premi Nobel a Stoccolma per un dialogo interculturale. Uno dei temi che gli sono più cari è il rapporto tra fede e scienza, tra umanesimo e scienza.
Eminenza, cultura è un concetto perfino abusato. In che termini lo intende la Chiesa?
«Il concetto di cultura che abbiamo adottato e che è ormai dominante, non è più quello del Settecento illuministico per cui la cultura era l'aristocrazia del pensiero. Si è allargato fino a diventare più generalmente antropologico. È per questo che quando si verificano fenomeni come il Covid, il discorso non tocca solamente le questioni economiche o, a livello culturale, l'apertura o meno delle scuole, dei musei o dei teatri. Ci si deve interessare sempre più ai fenomeni globali, affrontando i temi da un punto di vista antropologico nel suo complesso».
Su questa prospettiva orienta l'attività del suo dicastero?
«Per comprendere la nostra attività, è necessario definire alcuni capitoli. Un primo orizzonte è quello legato alla scienza e alla tecnica, che in questo periodo ha mostrato tutta la sua grandezza, ma anche i suoi limiti. C'è, poi, un altro capitolo, quello della cultura digitale e dell'infosfera. Sul rapporto tra scienza e tecnica, lavoriamo in due ambiti. Il primo è quello che ha un impatto sulla persona umana, come la genetica, le neuroscienze e l'intelligenza artificiale. E il secondo è quello dell'informatica, della comunicazione digitale per la quale abbiamo attivato un dipartimento specifico. Ci sono problemi etici ed esistenziali che coinvolgono questi settori: pensiamo solo all'intelligenza artificiale forte, che si vorrebbe dotata di autocoscienza e che si sta sempre più elaborando, in pratica si parla di creare macchine ad algoritmo aperto per scelte differenziate. Poi ci sono le questioni sollevate dal mondo dell'informatica: l'incidenza di fenomeni come le fake news, la violenza verbale scagliata all'interno dei social, oppure l'idea della post-verità».
Questo anno di Covid come ha modificato la vostra attività?
«Durante la pandemia le due aree della scienza di cui parlavamo sono diventate particolarmente rilevanti. La prima perché ha cominciato a porre l'interrogazione sulla pur vera grandezza della ricerca scientifica (pensiamo ai vaccini e agli interventi sanitari), ma ha dimostrato allo stesso tempo anche la fragilità e i limiti. La tecnica è sicuramente indispensabile, ma per la pienezza della persona umana non basta, c'è bisogno di una visione umanistica. Ricordiamo il discorso di Steve Jobs agli studenti di Harvard. Diceva: È necessario il connubio tra la tecnica e l'umanesimo, tra la scienza e la cultura classica, se si vuole che emerga un canto dal cuore. Ecco la scienza è necessaria, ma non basta. E in questo periodo lo si è compreso».
Quanto al secondo aspetto?
«Per quanto riguarda l'infosfera, il Covid, da un lato, ha moltiplicato i contatti ma, d'altro lato, ne ha rivelato l'incompiutezza rispetto all'incontro interpersonale. Personalmente faccio una fatica enorme a tenere conferenze on line e a partecipare a webinar. In questa tipologia comunicativa non riesco a sentire il pubblico, non ho la percezione delle curve di ascolto e di attenzione, svelate dai volti in presenza. Trovo faticoso questo nuovo modo di confrontarsi e dialogare davanti a uno schermo freddo, ma bisogna riconoscere che, se non avessimo avuto la rivoluzione digitale, non saremmo riusciti nel periodo dell'isolamento forzato a mantenere vive le nostre relazioni».
Da anni il suo dicastero propone quello che è noto come il «Cortile dei Gentili». E quest'anno?
«L'iniziativa comporta un dialogo tra credenti e non credenti e simbolicamente richiama lo spazio aperto ai pagani nel tempio di Gerusalemme, conosciuto anche da Gesù e da san Paolo a cui forse allude scrivendo ai cristiani di Efeso. Gli eventi del Cortile implicano una presenza viva: con il Coronavirus questa attività è stata duramente colpita, pur continuando nei confronti informatici. La programmazione del 2020, a causa della pandemia, è saltata, ma stiamo già pensando agli appuntamenti del 2021».
Che cosa avete in programma?
«Per quanto riguarda l'Italia pensiamo a tre iniziative, due all'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, e una legata all'anno dedicato a Dante. La prima sarà un dialogo sul tema della democrazia, si terrà in aprile e vorrei invitare la ministra Marta Cartabia. La seconda, in maggio, sarà invece sul tema della moda, con tutti i fenomeni ad essa connessi, come quello sociale, economico, estetico».
Ha parlato di Dante, è il suo anno...
«Abbiamo in programma una iniziativa nelle catacombe romane di S. Callisto, forse a giugno, sulla Divina Commedia. Una sorta di viaggio, come scendere negli inferi. Alcuni attori (Carlo Verdone, Margherita Buy, Nancy Brilli, Alessandro Haber) sceglieranno dei brani del poeta e li commenteranno, dal loro punto di vista. Ci sarà poi un'esposizione digitale dei preziosi manoscritti della Biblioteca Vaticana, e su Dante uscirà anche una Lettera apostolica di Papa Francesco.
Una componente del vostro dicastero sono le Consulte esterne.
«C'è innanzitutto la Consulta femminile, composta da una ventina di donne di varie estrazioni sociali, culturali e religiose con le quali ci confrontiamo su diversi temi. Un'altra è quella giovanile, con ragazzi dai 18 ai 24 anni: le generazioni, infatti, cambiano con una velocità impressionante. Ascoltando questi giovani, che mi hanno sorpreso, rivelando una straordinaria creatività, cerco di avvicinarmi al loro linguaggio e alla musica giovanile».
Anche a rap e trap?
«Anche il rap, sì, sto tentando. Qualche tempo fa ho incontrato un rapper, Anastasio, nel quale ho scoperto una profondità inattesa. I suoi testi sono uno specchio limpido delle attese profonde dei giovani».
Lei è un assiduo frequentatore di Twitter. Un cardinale «social», anche durante Sanremo....
«Si, mi piace intervenire due volte al giorno con una citazione biblica e con un'altra di autori diversi anche non credenti (il martedì e il giovedì ospito tweet di giovani e donne). Sono intervenuto anche sui testi dei brani in gara a Sanremo. Sì, ci possono essere rischi e, certe volte, mi trovo talora anche in difficoltà nel confronto, devo riconoscerlo. Di natura sono aperto al dialogo, che è al centro della mia attività. Dialogo non significa cercare di individuare sempre la mediazione o il minimo comune denominatore, come deve fare l'Onu o la diplomazia. Dialogare significa, invece, che ognuno presenta in modo motivato la sua identità, ma è aperto all'ascolto dell'altro, all'incontro».
Eminenza, torniamo alla pandemia. Che cosa ci sta insegnando il Covid?
«Parto da una parola che è diventata un mantra, di cui spesso non si conosce nemmeno il significato pieno e vero: resilienza. Deriva dal latino resilire, che significa fare un balzo, dal basso verso l'alto. È la proprietà di alcuni metalli che, dopo essere stati piegati, possono ritornare alla posizione di partenza. Può esserci una resilienza negativa, dove l'uomo ritorna e si chiude su se stesso. Ma c'è anche chi è capace di compiere un balzo in avanti, divenendo migliore di prima. È questa l'idea di resilienza positiva, rinascere dal basso per fare un passo in più e oltre. La grande malattia del nostro tempo non è tanto l'ateismo teorico, ora piuttosto raro. Ma l'indifferenza, la superficialità, la banalità, la nebbia, l'apateismo, cioè l'apatia morale e spirituale. Credo che la resilienza rappresenti una lezione che può scuotere la coscienza di molti e riproporre l'interrogazione sul senso dell'esistenza, generando la speranza, attraverso una fede implicita o embrionale».
C'è un vaccino spirituale?
«È ritornare ancora alla relazione umana, nelle sue tre dimensioni. Innanzitutto la relazione verso l'alto e l'oltre, cioè verso la trascendenza, il mistero. Per il credente significa rivolgersi a Dio, alla fede, ai grandi valori. Il secondo vaccino è guardarsi occhi negli occhi, ovvero ricreare una relazione interpersonale seria, non quella superficiale ed esteriore dei contatti di pelle. Significa scoprire la bellezza del volto, la tenerezza, la passione, l'intimità profonda che è capace, però, anche di un ulteriore livello, l'amore. Quell'amore di donazione che ti fa andare oltre il sesso, l'eros, l'esteriorità. Infine, un terzo antidoto: la relazione con le cose, con la materia, col basso, anche con gli animali, con il mondo che ci circonda. Qui entrano in gioco anche la tecnologia, la sostenibilità, l'ecologia, la natura: al riguardo ho appena dedicato un libro alla Bibbia e all'ecologia».
Guardando al mondo, come valuta l'arrivo di Joe Biden alla presidenza americana?
«L'ho incontrato a Roma quando era vicepresidente. Abbiamo parlato a lungo. Dal punto di vista umano, ho il ricordo di una persona molto ricca, che ha vissuto l'esperienza del dolore per la morte della moglie, di una figlia piccola e del figlio adulto per cancro. È una persona molto pacata, con una carica di semplicità e di finezza».
Eppure sta dividendo la Chiesa americana, con le sue scelte pro aborto
«Il problema è che l'uomo politico si trova in contesti di democrazia globale che potrebbero anche non collimare con le sue scelte personali. Ma, ad esempio, su altri fronti è molto vicino al messaggio cristiano: nella dimensione di aiuto ai poveri, agli stranieri, nella questione dell'unificazione e della pacificazione della nazione, nell'evitare toni alti e divisivi, nel tema ambientale. Credo che su questo stia dando un grande valore a una nazione per certi versi profondamente lacerata al suo interno. Certamente non possiamo dire che è allineato su tutto il messaggio ecclesiale, come sul tema dell'aborto. Ma credo che su questo bisogna tener presente il contesto americano, che si sta sempre più orientando verso una visione secolarizzata. Ritengo tuttavia che il giudizio complessivo su Biden debba essere positivo, pur coi limiti indicati».
Eminenza, del fronte anti-Bergoglio e della spaccatura nella Chiesa che cosa pensa? Come spiegarlo ai fedeli?
«È indubbio che c'è una polarizzazione che produce effetti negativi, soprattutto all'interno della Chiesa. Ma nella sua storia, le tensioni ci sono sempre state, anche con gli altri Papi. È inevitabile: già sant'Agostino comparava la Chiesa all'arca di Noè ove c'erano la colomba ma anche il corvo. Tuttavia, quando certi siti o personaggi giungono a forme così aggressive e persino fondamentaliste, non si tratta più di critica o dissenso. Io sono favorevole al duetto, che in musica, ad esempio, tra un basso e un soprano produce armonia nonostante la diversità di base. Ma non al duello, come accade nelle reazioni di quei siti o di quelle figure che si dichiarano cristiani esclusivi.
Come dicevo, scelgo il dialogo anche con chi ha una visione diversa dalla mia. Ma, quando il confronto diventa scontro e duello, e uno assume la sua verità come una spada, a quel punto si spegne il dialogo e si ferisce l'autentica anima del messaggio cristiano».
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