"È un assassino ma sono sua mamma. Vorrei essere capace di riabbracciarlo"

Nel 2021 suo figlio Alessandro cercò di avvelenarla con un piatto di penne al salmone e le disse: "Perché non muori ancora?"

"È un assassino ma sono sua mamma. Vorrei essere capace di riabbracciarlo"
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«Mi sento devastata come New Orleans dopo l'uragano Katrina. Ma sono mamma». Basta questa frase per intuire il dramma interiore che tormenta Monica Marchioni.

Nel 2021 è sopravvissuta al tentativo di omicidio da parte di suo figlio Alessandro, 30 anni, che ha cercato di avvelenarla con un piatto di pennette al salmone e ha ucciso il suo compagno. E come si fa a perdonare una cosa del genere? Ma allo stesso tempo, come si fa a rinnegare il proprio figlio?

Monica, perdonerà mai?

«Sto cercando dentro di me. Mi sto avvicinando al perdono ma è molto difficile. Vorrei fosse il seguito di un pentimento di mio figlio che per ora non c'è stato. C'è stata solo la confessione in aula. Da un lato vorrei abbracciarlo ma mi tornano ancora in mente le parole che mi ha detto: 'Eppure il veleno te l'ho dato, perchè non muori?'. Quegli occhi. Non era lui».

È mai andata a trovarlo in carcere?

«No, mai. Non riesco nemmeno a passarci davanti a quel carcere. L'ho solo visto in aula. Mi sono chiesta tante volte se ce la farò. Mi sono immaginata la scena di lui che mi chiede perdono tra le lacrime. Forse sono una sciocca, ma immagino il nostro abbraccio mentre piangiamo. Ora però non sono pronta».

L'ha mai odiato?

«Mai. Ma ho addosso un tale dolore. Sono vittima di un tentato omicidio ma sono anche sua mamma, sono umana e il mio istinto è quello di stringerlo. Quando ho saputo della sua confessione ho avuto un malore e subito il pensiero è stato: poverino, è là da solo. Perché il padre, dopo averlo accompagnato per tutto il primo grado, quel giorno non c'era».

Ed è tornata a parlare di lui dicendo «mio figlio».

«Sì, da poco. Prima non riuscivo. Alla mia psicoterapeuta dicevo: 'Mi aiuti a fargli il funerale nella mia mente'. Volevo seppellirlo, dimenticare. Ora non lo dico più. Dentro di me c'è stato un clic e non lo considero morto».

Cosa le fa più male?

«Non ho ancora capito perchè lo ha fatto e questo mi tormenta. Non è stato un raptus ma un piano premeditato per mesi. Nessun genitore merita questo».

Ha mai parlato con genitori che hanno perdonato?

«Guardi, quando leggevo sui giornali del papà di Erika De Nardo non me ne capacitavo e, ammetto, verso di lui ho provato anche disprezzo. Come poteva far finta che nulla fosse accaduto? Per me il perdono è un percorso molto più lento, doloroso e complesso. Ho letto il libro di Gemma Calabresi e mi ritrovo molto: perdonare non è immediato. Poi penso ad altri genitori, come la mamma di Benno, uccisa e gettata nel fiume. Vorrei dar voce anche a lei».

Lei invece è sopravvissuta. Ha voce.

«Sì, sento di avere una missione. Ero arrivata in ospedale praticamente morta ma ce l'ho fatta. Ci dev'essere un motivo.

Dopo il film dell'orrore che ho vissuto, sto cercando di mettere a fuoco quale può essere il mio compito. Un'amica mi ha avvicinato alla fede e lì sto cercando un po' di equilibrio. Pur soffrendo mi sento forte e voglio trasmettere agli altri la mia forza».

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