La sua storia fa il paio con quella di Bruno Contrada. Tutti e due superpoliziotti a Palermo nei caldissimi anni Ottanta, tutti e due finiti sotto accusa per concorso esterno in associazione mafiosa, tutti e due condannati a dieci anni per avere - così hanno stabilito le sentenze - tradito lo Stato, favorendo la latitanza di boss di Cosa nostra. Eppure appena qualche giorno fa Ignazio D'Antone, 67 anni, detenuto da cinque, ha ricevuto un encomio dall'organizzazione pentitenziaria militare del carcere in cui si trova rinchiuso, quello di Santa Maria Capua Vetere, a Caserta. La motivazione? Perché «ha dimostrato di essere in possesso di un attaccamento alle istituzioni profondamente sentito».
L'encomio risale a qualche settimana fa. A rendere nota la notizia, il difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera, che si chiede, amaro, se già la sola motivazione di questo riconoscimento ufficiale «non basterebbe per avanzare istanza di revisione della sentenza di condanna basata su un reato non previsto dal nostro codice penale e cioè concorso esterno in associazione mafiosa».
La motivazione dell'encomio è molto articolata. «Detenuto in espiazione pena -si legge -dalle eccellenti doti complessive che ha sempre assicurato, peraltro a titolo esclusivamente gratuito, una spontanea e assidua collaborazione nelle attività scolastiche che caratterizzano la vita dell'istituto. In particolare - prosegue il riconoscimento ha fornito un contributo determinante nella preparazione dei volontari in ferma prefissata annuale al superamento delle prove concorsuali per il passaggio alla ferma prefissata di quattro anni».
L'encomio ricorda che gli operatori preparati da D'Antone hanno ottenuto ottimi risultati in sede di concorso. «La profonda attività di "umanizzazione" dimostrata nei confronti di tutta la popolazione carceraria - continua la nota di elogio -nonché il tatto sempre signorile riservato agli operatori è da prendere quale esempio da imitare malgrado le difficoltà connesse con lo stato di detenzione. Il dottor D'Antone - è la conclusione -ha dimostrato di essere in possesso di un attaccamento alle istituzioni profondamente sentito».
Catanese, capo della squadra Mobile di Palermo dopo l'uccisione, il 21 luglio del 1979, di Boris Giuliano, D'Antone negli anni Ottanta è stato uno degli uomini di punta della polizia di Palermo. Ha diretto, tra l'altro, anche la Criminalpol del capoluogo siciliano, quindi è stato nell'ufficio dell'Alto commissario per la lotta alla mafia e poi al Sisde. A chiamare in causa D'Antone - così come Contrada - alcuni pentiti. Due in particolare gli episodi contestati: il mancato blitz, nel 1984, all'hotel Costa Verde di Cefalù durante la festa di nozze di Antonino Spadaro, figlio del boss della Kalsa; e un altro presunto blitz mancato, nel 1983, quello al battesimo del nipote di Pietro Vernengo. D'Antone ha sempre respinto tutte le accuse, sostenendo di avere sempre fatto il suo dovere di poliziotto, altro che favoritismi ai boss.
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