In aula la tragica moviola di una casalinga disperata che cambia ancora verità

Come un film, davanti ai giudici scorre la vita di una donna ossessionata dall’ordine che considerava la casa una reggia inviolabile

In aula la tragica moviola di una casalinga disperata che cambia ancora verità

nostro inviato a Como
A piccolissimi passi. Con la testa, le braccia e fors'anche l'anima, se mai fosse possibile nasconderla, raggomitolate dentro un maglione viola, dal quale è difficile staccare gli occhi. La sagoma minuscola di Rosa Bazzi esce dalla gabbia della corte d'Assise e si avvia verso la sedia dei testi. Pochi metri che, in realtà, sono un viaggio immane. Cominciato l'11 dicembre 2006: il tortuoso percorso della confessione, poi della ritrattazione. Dei sorrisi, poi delle lacrime. Degli insulti ai vicini di casa. E del suo grido d'amore, disperato, per Olindo.
«... Non è facile essere qui. Non saprei, con tutto quello che ho subito prima e dopo...».
Non è l'eloquio di Olindo, non è la sicumera di un tempo. «Quando c'è una sproporzione enorme tra un delitto straordinariamente barbaro e un movente banale bisogna indagare. Nel senso che la personalità di chi è imputato di un simile reato va studiata. Perché o si è davanti ad un psicopatico o a uno psicotico», ci dice l'avvocato Enzo Pacia, legale di lungo corso che, all'ultim'ora ha afferrato le redini dell'impossibile difesa della coppia.
Rosa Angela Bazzi: per le amiche, sempre che ne abbia mai avuto qualcuna, Rosi. Per il marito, Tati. O Paperina. O Ciccia. A seconda dell'intimità e delle circostanze. Rosa Angela Bazzi: professione casalinga, ma soprattutto donna delle pulizie. A ore in casa d'altri. A tempo pieno in casa propria. Perfettina. Dannatamente rompiballe. In buona sostanza quel tipo di moglie che un marito, dal normale livello di sopportazione, volentieri schiaccerebbe sotto i piedi come un acino d'uva dopo, vogliamo esagerare, un anno di convivenza. E invece Olindo, ovvero l'altra metà di questo strano mostro clinico a quattro gambe, due cuori e una capanna (quella di via Diaz a Erba dove il mondo comincia e finisce) non solo la sopporta, non solo la ama. Ma ne diventa complice. Firma ed esegue, secondo l'accusa, materialmente con lei e per lei il folle sequel di una strage per futili motivi. La vita di Rosi, i suoi tic, le sue manie. Come le parole, goccia a goccia, che sta distillando sotto l'effetto dei sedativi di cui, per prudenza, è stata imbottita. Passate e ripassate alla moviola in queste udienze, la vita e i suoi tic nascono e muoiono nei 65 metri quadrati al pianterreno della corte di via Diaz, lato sinistro, scala A: la sua reggia, ma anche la sua prigione, la loro prigione. Per questo forse la strampalata richiesta di Olli ai secondini di una cella con letto matrimoniale non deve stupire più di tanto. Rosi che si mangia le unghie e si tormenta le maniche del maglione di turno, nel quale, puntualmente si inabissa. Rosi garrula e sorridente, fin troppo, mentre in aula proiettano le immagini della strage. E poi «quella» Rosi. Che accarezza il marito e si ostina a mettergli a posto il colletto della camicia che è già perfettamente a posto, e ci fa tornare alla mente la stessa Rosi che urlava quando qualcuno metteva i panni alle finestre: «Il pulviscolo poi mi entra in casa! Come fate a non capire?».
Una madre che per lei non è mai esistita e che l'ha maledetta in punto di morte, una madre che lei non ha mai voluto o potuto essere. «Perché il suo bambino - ricorda un altro vicino - era il loro camper». Che pulivano ogni giorno e usavano con parsimonia per non rovinarlo. Come il divano preso a rate, scadenza settembre 2007. Come il televisore al plasma, che guardavano soltanto al pomeriggio. Una gravidanza extrauterina, un'altra non portata a termine. «Soffrì molto, perché aveva capito subito che non avrebbe potuto avere figli - dice una collega ai tempi delle pulizie all'ospedale di Erba -. Era un argomento da non toccare». Rosi dai capelli appena sotto l'orecchio nello stesso caschetto ordinatissimo dei tempi delle risse di corte ma col viso adesso segnato, smagrito. Bianco come un cencio, dopo che il sopravvissuto Mario Frigerio ha puntato il dito contro il suo Olli, contro di loro. Rosi che in cella, sotto la brandina, mette le sue ciabatte nere una accanto all'altra perfettamente allineate come allineati sul tavolino della cella sistema cracker e biscotti dietetici. Rosi che dopo una settimana di carcere voleva ferro da stiro e relativo asse «perché non posso stare con le mani in mano». Rosi che, per il mal di testa che il piccolo Youssef le faceva venire coi suoi strilli, lo sgozza, come ha confessato a suo tempo. Ci ricordavamo una Rosa Bazzi che sbatteva la porta in faccia ai giornalisti.

Che urlava: «Noi non c'entriamo, noi non abbiamo fatto niente» con aria fiera e baldanzosa mentre girava lo sguardo a 360 gradi per tenere sempre sotto controllo la «sua» corte. E adesso nella spontanea deposizione arriva un piagnucoloso: «Io e l'Olindo non siamo mai saliti, non siamo criminali. Abbiamo sempre cercato di aiutare...». Che c'azzecca? direbbe qualcuno.

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