Definirlo vulcanico è riduttivo. Di sfide ne ha affrontate tante nella sua carriera professionale, e non sono quelle a preoccupare. Così come le difficoltà o gli errori: trasformati in punti di forza. Per Domenico Gostoli l’unico vero problema è la noia. Mentre parli con lui, seduto sugli spalti sopra la pit lane del circuito di Monza, senti la forza dell’esperienza ma anche l’umiltà di chi lavora con grande passione.
Partiamo dall’inizio.
“Sono un giovane ingegnere meccanico laureato a Genova con una tesi fatta presso la divisione nucleare della Finmeccanica, azienda che ha ricoperto un ruolo tecnologico chiave nello sviluppo del nucleare, particolarmente in Francia. Eravamo l'eccellenza in quel settore. Poi arriva il disastro di Chernobyl alla fine degli anni '80. Gli italiani votano al referendum contro il nucleare e si blocca l’applicazione di questa tecnologia, e in Italia, di conseguenza, si ferma ogni progetto”.
Ci siamo già scaldati, vedo.
“Fu un duro colpo, mi ero appena laureato, avevo già un percorso chiaro e un lavoro pronto da portare avanti. Finiti gli investimenti sul nucleare, molto giovane, ho pensato: “E adesso? Che faccio ? Sono morto”. La mia carriera è iniziata così, con un enorme e inaspettato punto interrogativo”.
Che succede dopo?
“Lavoro con la Finmeccanica, con Genova Ricerche e Università di Genova, su un progetto sull'autobus ibrido. A fianco di un professore illuminato, per realizzare il progetto di un concept di un veicolo Hybrid Range Extender, era l’anno 1988! Presentiamo questo progetto alla Comunità Europea, e ce lo finanziano. La tecnologia ibrida di oggi, a livello concettuale, è la stessa di quel progetto, e siamo realmente stati pionieri, ma non me ne ero reso conto all’ora…solo oggi capisco. Così negli anni a seguire si sviluppa una flotta pilota di circa 300 autobus nelle città italiane. L'unico vero problema era che noi adottavamo la sola tecnologia all’epoca disponibile per le batterie, cioè il piombo, con bassa densità di energia ed evidente problema del surriscaldamento”.
Una grana non da poco.
“Sì. E scoppierà presto. Nel frattempo, faccio una esperienza in IBM a Milano e successivamente in una società di consulenza; torno a lavorare a Genova proprio per la Società (proprietà al 50% Iveco e al 50% Finmeccanica) titolare di quel Progetto Finanziato e di quella tecnologia Hybrid Range Extender, come responsabile tecnico dello sviluppo degli ibridi”.
Un cerchio che si chiude.
“Sì, comincio a lavorare e di lì a poco una grana enorme sul mio tavolo: i problemi di surriscaldamento delle batterie al piombo emergono concretamente sul campo, sui veicoli: il problema è grave ed è da risolvere, subito. E così ho fatto. All’epoca lavoriamo su sistemi “analogici”, il “digitale” sarebbe arrivato concretamente solo dopo qualche anno. Dopo sei mesi, forse qualche mese in più, sviluppiamo un sistema che rilevava la temperatura e misurava lo stato di carica di tensione di ogni singola batteria in modo che quando andava fuori soglia provava a bilanciarla o comunque andava in allarme. Un primo concetto di BMS (Battery Management System): anche lì decisamente pionieri. Li sono diventato un “genio”.
Ancora una volta da un problema il vento che gira a favore.
“Si, sono le opportunità che derivano dai problemi…Comincio a essere conosciuto in Iveco …mi chiamano quindi da Lione, sempre in Iveco, dove per cinque anni lavoro prima nello sviluppo e poi come Responsabile Supply Chain per una joint venture tra Renault e Iveco. Questo è stato l'inizio della mia carriera in Iveco, dove poi rientro come Responsabile della Valutazione del Prodotto in ottica cliente”.
Nel dettaglio?
“Facevo i test su strada, valutavo il veicolo secondo processi e logiche, sviluppati dal mio team, che rappresentassero l’ottica cliente… perché per capire come si sviluppa un camion devi capire come lo vive un autista. Mi fermavo nelle aree di servizio e parlavo con i driver per capire le loro esigenze. Ho raccolto spunti ed idee logiche, pragmatiche ma spesso incredibilmente utili. Ed i drivers erano orgogliosi di poter raccontare il loro punto di vista. Mi ricordo molto bene una riunione con il CEO dell'azienda di allora. Viene presentata una nuova cabina e gli evidenzio, frutto dell’analisi fatta dal mio team, tutti i problemi che ha questa cabina. E gli faccio un elenco. Risposta testuale: “Se quel che dice è vero, lei in questo momento ha distrutto il progetto”. Da lì abbiamo corretto il progetto, ma hanno iniziato a chiamarmi killer… io in realtà avevo fatto il mio lavoro, avevo portato un modo di diverso di vedere e valutare le cose…”.
Il tagliatore di teste. Andiamo avanti.
“Ero una sera tardi in ufficio a scambiare idee con il mio Capo dell'epoca. Gli dico: “I camion fanno 2 chilometri con un litro. Se miglioriamo l'efficienza del 10% gli facciamo guadagnare una tonnellata di soldi, ma una fetta dell’efficienza è nei piedi dell’autista..”. Era il 2008-2009. Io ho bisogno di capire come guida il driver. Anche perché i test di consumo con i driver oscillavano tra i driver stessi di oltre di 15 punti. Allora vado al centro di ricerche Fiat, coinvolgo 5 o 6 persone, uno statistico e un esperto di consumi. Cerco di capire come si guida in ogni condizione, se piove, se c'è traffico, se ci sono curve… Il tutto per provare a rendere indipendente la valutazione. Ci inventiamo un algoritmo messo a punto facendo campionatura di dati dal campo e correlazioni multivariate. Chiedo un budget 250 mila euro per un prototipo attraverso il quale misurare lo stile di guida dei driver. Ottengo un sì, con preciso obiettivo di tempi. Dopo lo sviluppo del prototipo, faccio guidare il camion al capo dell’azienda e, se ricordo, gli do 6,5 punti su 10 come valutazione. E poi insisto: “Adesso mi servono 1,5 milioni per svilupparlo e portarlo sulla strada”. Lui pensa che o siamo matti o siamo dei geni. E mi approva quanto chiedo. Da lì nasce il Driving Style Evaluation e poi si sviluppa anche il concetto di telematica Iveco".
Il rischio le dà adrenalina.
“Non è finita. C’è un cambio al vertice. Iveco non vinceva il Truck of the year da oltre 10 anni. E io mi metto in testa questa strana idea. Vado dal mio nuovo capo, nel 2012, e lo invito a Balocco insieme a tutto lo Steering Iveco. Gli chiedo di guidare e che gli avrei dato un voto. Avevo preparato il circuito e un camion. Monitoravo mentre era in pista, valutavo tutto. Questo algoritmo lavorava molto bene. Lui guida e capisce subito. Si convince che è una vera innovazione. …e gli propongo di partecipare al Truck of the year di Hannover. Lui che amava le sfide, ma amava vincere, mi dice che sono matto, ma dopo mia insistenza a mio rischio, si convince, e con uno storico camion arancione vinciamo il Truck of the Year grazie motori eccellenti e all’innovativo Driving Style Evaluation, che era certamente il piu “disruptive” sul mercato, perché valutava in modo unico e approfondito una componente essenziale della prestazione: l’essere umano, il driver”.
Dopo tutta questa lunga storia come si arriva a Ram e Dodge?
“Per me è stata una sfida. Io avevo lavorato un po' con Ram, portandolo per primo ufficialmente in Europa ad Hannover nel 2016, come LCV. Alla nascita di Stellantis, mi chiedono se voglio prendere in mano i due Brand Ram e Dodge e svilupparli: era una sfida, un progetto, una nuova esperienza, un percorso completamente nuovo: ovviamente accetto”.
La prima cosa che ti viene in mente?
“Dovevo capire chi fosse realmente il cliente e cosa pensasse in europa del DNA americano di questi Brand, così diversi, quali fossero le ragioni di una tale scelta di acquisto, certamente non convenzionali, e trasferirlo ai Partners e ai dealers. Così ho iniziato a portare nel Brand un'organizzazione per costruire un preciso “piano” con startegia di evoluzione e posizionamento, ho costruito un team da zero. È così che iniziamo a capire la line up di prodotto, quali versioni siano da portare o eliminare, sempre guardando il cliente, e quali siano i dealer piu “vicini” al nostro processo evolutivo, e via dicendo. Abbiamo definito una precisa road map, e uno dei problemi più immediati e delicati emersi era la mancanza di Brand awareness. Cioè pochi conoscevano questi Brand. Non avevamo una community, o come meglio spesso amo definirla, avevamo una “sleeping” community. Così iniziamo a lavorare in multifase, con gli importatori, con i dealer per selezionare i migliori, e, specialmente, a sviluppare un percorso di Comunicazione dei Brand, a partire dai Social, per coinvolgere la Community e ovviamente con gli organi di stampa: per farci conoscere, ma specialmente riconoscere”.
Qual è la vera sfida?
“Non perdere l'americanità del Brand, ma veicolarlo in Europa. Ram e Dodge devono fare un percorso evolutivo per diventare più sostenibili ma restando un american brand”.
Differenza tra i due marchi?
“Sono due mondi totalmente diversi. La forza di Dodge è di essere una tradizione che gioca fuori dagli schemi. Forza del lavoro di posizionamento e sviluppo fatto dal nostro Global CEO, Tim Kuniskis. Non ha un vero diretto competitor perché fa un'altra partita. È un'auto emozionale, iconica. Nel mondo dell'auto e delle supercar a mio modo ci sono poche vere icone: Dodge Challenger è una di queste. Ha saputo ridisegnare il prodotto negli anni senza perdere la tradizione e la riconoscibilità. Essendo sempre un po’ “not domesticated” come dice il claim del Brand. Ram è il pick up che entra nel mondo del lifestyle ma anche delle supercar con il TRX. Ti dà la capability, le prestazioni ma anche comfort e coolness”. Oggi molti dei nostri clienti sono clienti che arrivano dal mondo dei SUV”.
E i numeri di vendita?
“Ho preso il Brand a maggio del 2021. Con Dodge vendevamo 500 auto, adesso ne vendiamo circa 2000. Con Ram vendevamo 3.500-4.000 auto e siamo a circa 6.000, attraverso un percorso di crescita sostenibile”.
Non male direi.
“Ti faccio un altro esempio sul TRX. Appena arrivato sul Brand leggo un articolo: negli USA lo stavano lanciando in quel momento. Io chiedo: noi quando lo lanciamo questo prodotto in Europa? Mi dicono che non è previsto e che i nostri importatori non sono interessati a venderlo. Gli ho chiesto se erano matti, avevamo un prodotto assolutamente unico e supercool, prestazionalmente incredibile, per clienti non del pick up, ma di puri brand supercar. Mi dicono quindi che non si può omologare in Europa. Io spingo, finalmente riesco ad avere una stima di quanto costasse portarlo in Europa. Sottopongo il progetto e mi dicono che non ci avrebbero investito. Agli americani ho detto che avremmo venduto 200 auto al primo anno, i miei dicevano che avremmo venduto forse 80 o 100 auto. Mi prendo il rischio. Porto il TRX in Europa. Nel primo anno, il 2022, vendo 383 macchine a prezzi supercar, molto più alti di quelli americani. Adesso per TRX ho più richiesta che produzione. Ne stiamo vendendo teoricamente 700 all'anno su 6mila macchine per un prodotto che ha un posizionamento prezzo alto, e che gioca sul segmento dove arrivano solo le Supercar, lo stesso cliente, quello che vuole qualcosa di estremo e “unconvetional”. Per di più è diventato un vero e proprio “flagship” del Brand. Io ho lanciato i veicoli così, tu crei un volano che alla fine si alimenta da solo. Ora tutti gli americani sanno che in Europa facciamo cose interessanti, ho la loro fiducia a rappresentare un loro Brand, mi supportano sia nei volumi sia nei progetti”.
Ha conquistato la loro fiducia.
“Hanno iniziato a vedere quanto vendiamo, che c'è un mercato. Ma stanno vedendo anche quello che facciamo per lo sviluppo del Brand, per valorizzarlo e posizionarlo. I margini sono più alti nella fascia delle supercar. Chi dice il contrario mente. Il problema delle aziende è che se tu potessi fare solo la parte alta delle vendite, faresti molti soldi. Ma devi vendere anche la parte medio e medio bassa, e lì si abbassano i margini perché competi con tutti e oggi molti marchi nuovi stanno entrando, attraverso l’onda dell’elettrificazione”.
Cosa pensa dell’elettrificazione?
“Io sono un assoluto pioniere dell’elettrificazione, come ti ho raccontato, ho due punti di vista. L'elettrificazione non è sbagliata ma bisogna farla secondo dei criteri e quando i tempi sono giusti. La forzatura non può esserci, perche alla fine rischia di portare un’esperienza cliente negativa e di compromettere l’espansione della tecnologia. Secondo me i costruttori di auto sono piu che pronti, in primis Stellantis, me non è ancora pronto il Sistema, non sono pronte le infrastrutture. Non tanto le colonnine, ma le sottostazioni elettriche – e qui esce la mia anima di ingegnere “Power Generation”- non sono pronte ad avere una distribuzione locale di potenza. Ti faccio un esempio: tu quando vai da una colonnina da 250 chilowatt, può non darteli perché magari in quel momento sono accesi tutti i condizionati della zona. E se casi simili limitano l'erogazione per una colonnina vuol dire che il sistema non è pronto. Io sono allineato al piano e via dicendo, ma bisogna fare dei sogni realistici, e che tutto il “Sistema” vada alla stessa velocità, capendo ora le necessità e le possibili problematiche quando la penetrazione sarà al 100%. Con Ram entreremo con l'elettrico alla fine del 2024/inizio 2025. Lo stesso vale per Dodge.
E saranno due grandi prodotti, “100% RAM & Dodge DNA” L'elettrificazione è una grande cosa ma deve avere i tempi giusti. Avverrà, noi non abbiamo esitazione e siamo molto avanti, ma per il resto serve tempo e serve non aspettare di riscontrare i problemi, ma anticiparli”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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