I meriti di Giuliano Ferrara sono fuori discussione. Nessuna polemica contingente potrà farceli scordare. È uscito dalla sua storia di comunista attraverso una crisi reale senza farsi sconti. Ha avuto la forza di cominciare da capo. Ha interpretato il craxismo come un'irripetibile occasione di modernizzazione per il Paese. Ha lottato contro il giustizialismo e la sua pretesa di fagocitare la politica. Ha compreso che il fenomeno Berlusconi non sarebbe durato lo spazio di un mattino. Ne ha partecipato con entusiasmo gli esordi. Ha gestito con responsabilità la successiva delusione. Comunque, ha sfruttato gli spazi che la presenza in politica del Cavaliere ha offerto, lungo l'ultimo decennio, per dare anima a una cultura politica che all'Italia era straniera. Ha fondato un giornale che è stato un punto di riferimento. Ha, infine, tra i primi compreso il cambiamento di paradigma politico che il nuovo secolo, apertosi con l'11 settembre, ha portato in Occidente.
Ha fatto questo per la passione ereditata dai suoi primi passi in politica; per una straordinaria intelligenza; per uno smisurato egocentrismo che gli ha concesso di andare avanti come un carro armato quando altri avrebbero issato bandiera bianca.
Tutto ciò ha avuto anche dei costi. Giuliano Ferrara, per un decennio, ha interpretato un one man show. Le sue intuizioni sono rimaste prigioniere del suo regno. Si sono riflesse in buoni e, a volte, anche illuminanti consigli. Hanno, in qualche caso, infarcito i discorsi del «Cav». Hanno ispirato dei percorsi. Non è poco. Ma non sono state in grado - né le idee né le intuizioni - di produrre esperienze culturali durature. Per quelle sarebbe stato necessario mostrare un grande rispetto per l'autonomia altrui; più curiosità per l'altro che interesse per la propria vicenda eroica; più disponibilità a «rischiare» sulla crescita di chi ti sta accanto. Ferrara non ha queste doti, ed è il motivo per cui chi invece è interessato a questi percorsi è portato a tenersi a distanza di sicurezza.
Così tutto è andato bene, o quasi. Fino a quando, sulla scena, è apparso qualcuno che almeno un po' di quelle doti le ha mostrate con in più l'aggravante di pensarla come lui. Ferrara, a quel punto, ha dato il peggio di sé. Di fronte al fatto storicamente sconvolgente dei due Presidenti delle Camere che hanno avuto il coraggio di assumere, contro l'intero establishment, la stessa sua posizione sui referendum in tema di bioetica, ha dichiarato che averli alleati era «un fattore di debolezza». Ha prestato corda a quanti hanno cercato d'impiccare Pera alla parola «meticcio», pur comprendendo che le implicazioni del discorso rappresentavano un attacco al multiculturalismo che è anche un suo bersaglio polemico. Ha consacrato una pagina del Foglio ad un libello la cui tesi di fondo è che Pera sarebbe un trasformista. Facendo finta di non comprendere né il senso vero dell'evoluzione di un pensiero né tanto meno cosa sia la categoria del trasformismo. Ha pubblicato un'altra pagina nella quale Pera era accusato - sulla base di argomentazioni che nel suo intimo gli avranno fatto ribrezzo - di essere un «rinnegato». Ha censurato persino Benedetto XVI quando ha inviato un messaggio d'importanza indubbia ad un convegno che, però, aveva il limite d'essere stato promosso da Pera. Ha inaugurato una risibile questione di stile, lui proprio che si era sempre fatto un vanto di non avere considerazione alcuna per la misura. Sta cercando, infine, di trasformare il tentativo di una minoranza consapevole nella ricerca di una operazione di basso cabotaggio o, peggio, di sotto potere.
Noi non sappiamo cosa Pera e Formigoni abbiano veramente in mente. Dialoghiamo con loro e oggi - al convegno al Teatro Valle a Roma dedicato al tema del «Dovere dell'identità» - insieme a Fiamma Nirenstein, Magdi Allam e Alfredo Mantovano, approfondiremo questo dialogo. Sappiamo, però, che fino ad ora la loro azione politica ha aperto all'azione culturale che Ferrara reclama, quegli spazi che, invece, il suo egocentrismo ha spesso impedito. Ferrara si è distratto. Ma mentre lui era intento ad attaccare il Presidente del Senato, sono nate fondazioni, hanno imparato a collaborare, hanno ricercato contatti internazionali, si sono creati, attraverso scontri durissimi, spazi nell'università, sono nate nuove scuole al di fuori delle egemonie consolidate, si sono aperte contraddizioni in case editrici affermate, ne sono sorte di nuove pronte a rischiare sul mercato. Per il debito intellettuale che gli portiamo, ci sarebbe piaciuto trovare Ferrara al nostro fianco. Ma, invece, ci siamo sentiti ripetere dai suoi collaboratori: «Come si fa... non sai quanto ce l'ha con Pera».
Per mesi, ai tanti che ci domandavano attoniti cosa stesse succedendo, abbiamo risposto che si trattava di una questione di brutto carattere ma, in ogni caso, di carattere. Abbiamo replicato intensificando le richieste di collaborazione. Abbiamo pubblicamente affermato che ci appariva assurdo marciare divisi per essere colpiti uniti. A questo punto, però, il silenzio potrebbe essere scambiato per debolezza o soggezione. Per questo, abbiamo il dovere di dire a Ferrara che il problema non è Pera e non è nemmeno il presunto accordo con Formigoni.
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