Al Azhar «scomunica» i kamikaze: «L’attacco suicida non è martirio»

In Egitto religiosi e giornalisti impegnati a smontare la propaganda degli integralisti

Marcello Foa

C’è troppa confusione nella testa dei giovani musulmani che sognano una fine di kamikaze. Il suicidio non è un martirio e la difesa della propria patria non equivale a quella della propria fede. Parola dell’Università di al Azhar, che, in una religione priva di gerarchia ecclesiale, viene considerata la custode dell’ortodossia sunnita. Da secoli i docenti dell’università del Cairo indicano quali sono i comportamenti da seguire (o da evitare) per essere autenticamente musulmani. Negli ultimi tempi sono impegnati in una missione molto delicata: smontare la propaganda teologica dei fondamentalisti islamici.
Da settimane si moltiplicano gli interventi nelle scuole coraniche e sui media; l’ultimo è del professor Muhammad Rafit Othman con un articolo sul quotidiano panarabo edito a Londra al Sharq al Awsat. La sua tesi è netta: chi si uccide non è un martire; e non riceverà nemmeno una delle settantadue vergini promesse da Maometto. Anzi, in paradiso non ci andrà nemmeno perché, come scrive il Corano, «il suicida finisce all’inferno». Poco importa che le sue intenzioni siano religiose: «Togliersi la vita è un reato condannato dall’Islam senza eccezioni», conferma al Giornale, il professore dell’Università di Tunisi Hamadi Redissi.
Il vero martire è colui che perde la vita per testimoniare la sua fede, in un contesto ben preciso: la Jihad ovvero guerra santa. «A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso sia vittorioso, daremo presto meritata ricompensa», recita una sura. Morire può essere un onore, ma solo in battaglia e solo per mano del nemico, mai propria.
Tanto più che il terrorismo storicamente non rientra tra gli strumenti usati dai musulmani per vincere le guerre, come ha scritto Bernard Lewis in uno dei suoi ultimi saggi. La Jihad risponde a regole ben definite: «È un dovere collettivo e mai individuale. Con una chiara identificazione dell’avversario e condotta sotto la guida di un imam», spiega Redissi. La guerra santa viene proclamata per difendersi dagli invasori e non per esportare la fede, ed è dunque fondamentalmente difensiva.
Solo verso la fine del secolo scorso il terrorismo ha iniziato a essere utilizzato da alcuni gruppi estremisti. I primi a compiere operazioni kamikaze in nome di Allah furono a Beirut, all’inizio degli anni Ottanta, il partito islamico Dawa e gli Hezbollah. Poi dal ’93 la tattica è stata adottata da organizzazioni palestinesi, tra cui Hamas, Jihad islamica e Martiri della Brigata Al Aqsa, ma solo contro obiettivi israeliani.
Nello stesso periodo Osama Bin Laden e i suoi predicatori hanno creato la figura del «terrorista suicida globale», di cui il mondo ha preso tragicamente coscienza l’11 settembre 2001. Da allora migliaia di musulmani in tutto il mondo sono pronti a immolarsi. Si lasciano incantare dagli imam più oltranzisti, ascoltano affascinati le gesta dei reduci dell’Afghanistan e dell’Iran, sognano di essere protagonisti almeno una volta nella propria vita.
Fanatici pericolosi, che l’Università al Azhar è decisa a contrastare.

«Il kamikaze sbaglia due volte, perché il suo presunto martirio porta all’uccisione “degli altri” per scopi che sono puramente politici e non religiosi», scrive il professor Rafit Othman. È un peccato, non una virtù.
marcello.foa@ilgiornale.it

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