Gli arabi, la beneficenza, la gentilezza. Serena: "Comprai una Ferrari, l'ho rivenduta subito"

L'ex attaccante, oggi commentatore di Sky, racconta di come i soldi arabi stiano spaccando il mercato del calcio e di come i genitori dei calciatori più giovani vadano educati

Aldo Serena
Aldo Serena

“Ci sono, ma ti chiedo ancora un attimo. Sono entrato nell’Area B di Milano con un’auto diesel del 2015 e sto cercando di attivare uno dei 5 ingressi bonus a cui si ha diritto nell’arco dell’anno, solo che non riesco ad attivare il profilo sul portale del Comune”.

È una risposta che non ti aspetti quella con cui Aldo Serena, ex attaccante della nazionale, oltre che di Inter, Milan, Juventus e Torino, solo per citare le squadre più blasonate, esordisce al telefono all’ora fissata per l’intervista. E in questa risposta c’è tutta la semplicità di un personaggio che in campo avrà anche sgomitato per farsi valere contro i difensori avversari, ma che fuori dal rettangolo di gioco ha fatto della gentilezza, educazione, sensibilità e low profile la propria cifra stilistica.

Nato nel 1960 a Montebelluna, in provincia di Treviso, Serena oggi è uno dei più autorevoli e stimati commentatori tecnici di Sky, dopo esserlo stato per 27 anni di Mediaset. Ma, pur avendo fatto delle telecronache calcistiche la propria professione da quasi tre decenni, continua a vivere questa attività “come un divertimento retribuito, perché in fin dei conti commentare le partite ti dà l’occasione di girare il mondo e vedere tante cose interessanti”. Nell’intervista in esclusiva a ilGiornale.it parla di carriera, soldi, investimenti e… di rispetto per il prossimo.

Partiamo dalla fine. Cosa ne pensi dell’ultima sessione di calciomercato, nella quale tantissimi calciatori (e allenatori) hanno scelto di trasferirsi in Arabia Saudita richiamati da stipendi fanta-milionari?

"Gli arabi stanno spaccando il mercato. Prima c’era la Premier League, con potenzialità che altri mercati non hanno per cui società in bassa classifica possono fare concorrenza ai nostri top club per acquistare i calciatori, ma quest’anno con l’arrivo dell’Arabia si è entrati in un’altra dimensione. Con questo salto il mondo del calcio subirà una rivoluzione, ma finirà anche per frammentarsi molto."

Ai tuoi tempi come eravate messi a stipendi?

"All’inizio non si guadagnava molto. Io nel 1978 guadagnavo 150 mila lire al mese con il primo contratto all’Inter, più vitto e alloggio. In quegli anni il salto di qualità c’è stato con la vittoria dei mondiali in Spagna nel 1982 e con l’apertura della Serie A agli stranieri. Dopo il 1982 la Serie A divenne il riferimento mondiale e un calciatore medio cominciò a guadagnare tre, quattro o cinque volte più di quanto guadagnava prima."

È per questo che hai cambiato tante squadre? Per guadagnare di più?

"In realtà io ho cominciato a guadagnare bene dopo il 1982, quando cominciai a rimanere stabilmente nelle grandi squadre e il mio stipendio cresceva di pari passo con il mio rendimento. Quanto ai tanti cambi di maglia, all’epoca i calciatori non avevano autonomia. Fino a quando non c’è stato lo svincolo, l’inter, che era proprietaria del mio cartellino, disponeva di darmi in prestito per poi riprendermi."

Avresti preferito non cambiare?

"Continuare a cambiare era una cosa per certi versi un po’ esasperante, tanto più che a me sarebbe piaciuto diventare il riferimento di una squadra. Tuttavia, questo continuo andare e tornare, soprattutto nei primi anni, mi ha aiutato a forgiare il carattere e a superare la mia timidezza. Inoltre mi ha dato l’occasione di conoscere personaggi di altissima caratura come Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi ed Ernesto Pellegrini, solo per citarne alcuni."

E alla fine i soldi sono arrivati…

"Non mi sono mai lamentato, anche perché non avrei mai pensato di fare la vita che ho fatto partendo dal basso: i miei avevano un’aziendina artigianale che faceva scarponi da montagna e io fin da piccolo ho lavorato con loro. Non avrei mai sognato di fare una vita così. I soldi, comunque non sono mai stati il primo pensiero, tanto che non ho mai avuto un procuratore che ottimizzasse le trattative per me: mi interessava molto il rapporto personale con i dirigenti e, siccome ero un giocatore con determinate caratteristiche e cambiavo spesso società, ci tenevo a presentarmi in maniera corretta."

E come è andata con i primi stipendi? Ti sei tolto qualche sfizio?

"In realtà sono un prodotto della mia generazione e della mia epoca, per cui sono un lavoratore risparmioso. Il primo acquisto importante è stata l’auto, a 20 anni, quando giocavo nel Como. Mi ero preso una Golf GLD, facendo bene i conti di quanto avrebbe impattato il superbollo, che all’epoca ancora penalizzava le auto diesel."

Nessun acquisto folle? Avrai fatto dei “colpi di testa”, per citare il titolo della biografia (I miei colpi di testa, Ndr) scritta con il giornalista Franco Vanni e uscita lo scorso anno…

"In effetti avevo acquistato una Ferrari, ma l’ho venduta subito dopo averla ritirata perché il suo prezzo nel frattempo era salito così tanto che sarebbe stato una follia non rivenderla."

Come hai investito i tuoi guadagni?

"Avevo un socio con il quale abbiamo spesso fatto operazioni immobiliari, sempre con molto raziocinio. Poi sono dell’idea che sia giusto differenziare, per spalmare il rischio in diversi ambiti, perché anche nell’immobiliare si perdono soldi."

Il calcio può essere un investimento?

"Ad alti livelli il business del calcio è difficile che garantisca profitti. Tuttavia, se gestito con acume, intelligenza e lungimiranza come fanno Udinese, Empoli, Lecce, Atalanta e altre società, lo spazio per avere bilanci positivi c’è. Si può fare, quindi, ma bisogna limitare le proprie ambizioni, perché con i numeri vertiginosi del calcio riuscire rimanere nelle righe è difficile."

Torniamo al libro: cosa ti ha spinto a scrivere una biografia?

"Era già qualche anno che degli editori mi chiedevano di pubblicare, ma non mi sentivo pronto. Poi ho deciso di farlo per sdebitarmi con Milano che, insieme a Montebelluna, è il posto in cui ho vissuto di più: tutto il mio compenso verrà devoluto all’Istituto dei tumori di Milano. L’altro motivo è che mio figlio adolescente da qualche anno gioca a calcio e, frequentando i campi delle giovanili mi sono reso conto che più che educare i figli, bisogna educare i genitori."

In che senso?

"Oggi ci sono ragazzini di 9-10 anni messi sotto pressione dai genitori perché devono arrivare al successo. Intorno ai campi da calcio giovanili si vedono delle scene tremende.

Per questo ho voluto scrivere di un’altra epoca in cui era la passione a guidare una scelta del genere e non il fatto di poter diventare ricchi e famosi. Di fatto il calcio è stato un pretesto per parlare di emozioni e del rapporto con gli altri."

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