Banine, un'odalisca sotto la Tour Eiffel

L'esule che non si sentiva russa racconta gioie e follie della Parigi che fu

Banine, un'odalisca sotto la Tour Eiffel

Quando la diciassettenne Umm-El-Banine Assadoulaeff arrivò a Parigi nei primi anni Venti, faceva parte della grande ondata migratoria della cosiddetta Russia bianca sconfitta e in fuga da quella rossa che da Mosca a San Pietroburgo deteneva ormai il potere. Contrariamente alla vulgata, più o meno interessata, che vedeva in quell'emigrazione nient'altro che una diaspora aristocratica, sul modello di quell'Ancien Régime francese che, costretto dalla Rivoluzione, era andato a chiedere asilo nelle corti, come nei bassifondi, delle capitali europee, quella russa comprendeva tutte le classi sociali: c'erano gli scrittori e c'erano i generali, i soldati semplici, i servitori e i commercianti, gli artisti e i manovali, il che spiega anche il contraccolpo che quell'esodo provocò in patria, l'impoverimento dato dal venir meno di chi di quel popolo era stato non tanto classe dirigente, quanto elemento modernizzatore: gli ingegneri, i medici e gli avvocati, gli insegnanti e gli impiegati, la burocrazia e la borghesia intellettuale di un impero che la sconfitta bellica e lo scoppio della rivoluzione bolscevica aveva lasciato a metà del guado riformista... A Parigi i russi fondarono scuole, seminari, conservatorii, chiese, giornali, una sorta di piccola patria separata da quella madrepatria tanto amata e tanto evocata che, nella stragrande maggioranza, nessuno di loro avrebbe più rivisto.

Figlia di un petroliere, nonché ministro dell'effimera Repubblica dell'Azerbaigian, Umm-El-Banine Assadoulaeff aveva tutti i requisiti per sentirsi parte integrante di quell'emigrazione forzata che da Baku prima, da Istanbul poi l'aveva vista arrivare un mattino d'estate alla gare de Lyon. Tranne uno: non si sentiva per nulla russa, ma persiana, il che, vista la storia pregressa dell'Azerbaigian aveva un senso, e in quanto persiana principessa, un desiderio e insieme un'identificazione sganciata da ogni realtà sociale, ma non per questo vissuta come un'impostura. Un primo, involontario segno di questa identificazione, viene ironicamente da lei stessa descritto allorché, giovane principessa, si palesa scendendo dall'Orient-Express su cui ha viaggiato: «Ma questo è il travestimento per una pantomima dal titolo L'Odalisca e il Progresso. Un çarsaf a Parigi, con due sopracciglia da carrettiere del Caucaso. E che dire dell'abito, perfetto per Tashkent! E dentro l'abito questo sedere perfetto per l'harem di Abdul-Amid! Dovremo affittare una carriola per trasportarlo».

I miei giorni a Parigi è l'autobiografia romanzata che Banine, questo il suo nome d'arte, pubblicò in Francia nel 1947, un titolo che usciva a ruota dietro quel I miei giorni nel Caucaso dove aveva raccontato la sua infanzia persiana. Nell'edizione di Neri Pozza offerta ora per la prima volta al pubblico italiano (pagg. 284, euro 16, traduzione di Sonia Folin, introduzione di Valentina Maini), il riferimento nel colophon a quella prima edizione francese suscita però qualche interrogativo, visto che nel libro si citano nomi, dati e contingenze degli anni Sessanta e Settanta e che quindi siamo di fronte a un'edizione poi rivista e ampliata. Qualche elemento biografico in più, compresa la data di morte di Banine (il 1992), il suo romanzo d'esordio, Nami, nel 1943, la sua conversione al cattolicesimo negli anni Cinquanta avrebbe inoltre giovato per un suo ritratto a tutto tondo e in grado di meglio situarla all'interno della società francese fra le due guerre prima, e poi negli anni del dopoguerra.

Ben scritto, con un'insistita verve ironica in netto contrasto con la coeva memorialistica del fuoriuscitismo russo, I miei giorni a Parigi è il ritratto da un lato di un'educazione sentimentale alla francese, libera, colta, spregiudicata, dall'altro della costruzione ex novo di una personalità. Sposata all'età di quindici anni con un marito molto più grande di lei, a Parigi, da un lato Banine si libera definitivamente di quel legame, grazie anche alle difficoltà materiali e alla distanza geografica che separa la coppia, dall'altro fa del suo non sentirsi russa il primo elemento della sua rinascita: «Il lettore avrà registrato la mia persistenza nel sottolineare le differenze che ci separano dai russi; noi, i caucasici del Nord, del Sud, dell'Ovest, dell'Est; noi, gli azerbaigiani in particolare. Perché se è vero che siamo stati sottratti alla Persia dalla conquista russa, non abbiamo tuttavia perso né la nostra razza, che naturalmente non ha nulla di slavo, né la nostra religione, né la nostra lingua».

Il secondo elemento, contraddittorio, va da sé, ma funzionale alla Banine che si accinge a sbocciare, è «la gioia pura per essere sfuggita a quel passato di cui calpestavo il cadavere con soddisfazione. Lo facevo resuscitare soltanto per gettarlo con ancora più gioia nella tomba in cui avrebbe finito per disintegrarsi». Il risultato finale sarà paradossale: «Nessuno più di me ha apprezzato il proprio sradicamento; nessuno più di me si è sentito meglio in esilio, parola che non posso trascrivere se non fra virgolette».

Non sorprende che Banine non venga mai citata nelle memorie di una Berberova, di Bunin, di Nabokov e insomma dei campioni di quello che era l'altro esilio, quello senza virgolette, quello che appunto si viveva come una condanna esistenziale. In questa edizione di I miei giorni a Parigi, parte del capitolo intitolato «L'emigrazione bianca nata dalla Rivoluzione d'Ottobre» è aggiunto a posteriori, e probabilmente si avvale delle ricerche fatte da Banine per un altro libro, La France étrangère, uscito negli anni Sessanta. In questo capitolo, comunque, le ragioni dell'impossibilità russa di astrarsi da quella condizione di esiliati è resa molto bene, ma, appunto, dall'esterno, da chi non perde occasione per ribadire la propria alterità: «Io non detestavo i russi, ma mi sentivo profondamente altra, e infatti lo ero, e sono ancora scioccata quando vengo assimilata a loro. Quando mi si dice voi russi, il mio sangue, in cui non scorre la minima goccia slava, si gela». Varrà la pena ricordare che quando I miei giorni a Parigi esce in Francia, ovvero nel 1947, è l'altra Russia, quella di Stalin, della «guerra patriottica», del comunismo che ha sconfitto il nazismo al fianco delle democrazie liberali ad aver vinto la partita. Sotto questo profilo, i russi della diaspora seguita alla Rivoluzione d'Ottobre risultano doppiamente sconfitti e abbandonati al loro destino...

I miei giorni a Parigi è dunque il racconto di come «una giovanissima oca caucasica», dotata per di più «di un appetito da cavaliere mongolo», si trasformi in mannequin per una famosa sartoria, Worth, si prenda finalmente un amante che la riconcili con quei piaceri della carne che un matrimonio combinato a quindici anni aveva fatto sentire come una violenza, si muova per i locali e i luoghi deputati di quella Parigi fra le due guerre in cui moda, cultura e joie de vivre sembrano marciare di pari passo.

Quando gli anni Trenta arrivano al capolinea, Banine, che ha da poco superato la trentina, fa il suo esordio da scrittrice e ha ormai perfezionato quella sua immagine da principessa persiana, musulmana quanto disinibita, che adora ricevere stando sdraiata a letto e offrendo tazze di nerissimo caffè alla turca, che affascinerà un Ernst Jünger, arrivato a Parigi in uniforme da vittorioso ufficiale della Wehrmacht. Ma questa è un'altra storia.

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