Il Barocco delle corti e quello delle case

La magnificenza di Rubens e l’intimismo di Vermeer, la severità di Poussin e la prodigalità di Rembrandt in una irripetibile stagione europea

Ma la pittura è istinto o ragione? È studio o natura? È il calcolo sublime di Nicolas Poussin che misura toni e tempi, e osserva e studia Raffaello e Tiziano, oppure è la disordinata incursione di Rembrandt che guardava la sua faccia invecchiare e aggiungeva pieghe su pieghe per essere dapprima un giovane fiammingo dall’aria arguta, e poi un saggio, un mago, un profeta?
La pittura è la solitaria e silenziosissima misura di Jan Vermeer che lasciò pochissimi quadri e intanto faceva l’oste ma sapeva vedere quali erano i sentimenti minuti delle sue modelle in attesa di lettere d’amore o la stupefacente parata di Peter Paul Rubens che sa raffigurare tutto, sa celebrare l’immensità di una corte e la magnificenza del potere ma schizza due teste di negri come farebbe Delacroix? O Manet?
Non sappiamo come dirlo, non sappiamo come scriverlo, ma la pittura è tutto questo insieme. Negli stessi anni. Sarebbe stato interessante accompagnare Rubens e Velazquez in quella passeggiata che fecero nel 1628 insieme, da Madrid all’Escurial. Parlarono d’arte?
Quando la pittura arriva ai suoi culmini riesce davvero arduo usare le parole. Lo disse un bolognese introverso che aveva fatto fortuna a Roma, che «noi pittori abbiamo a parlare con le mani». Annibale Carracci non spiegava nulla di sé, non era capace.
Secondo lo storico d’arte Perez Sanchez, quella di Velazquez è «pittura pura». Luca Giordano, artista italiano dalla fama e produzione sterminate giudicò Las Meninas, il capolavoro del Sivigliano, come la «teologia della pittura». Ma iperboli ed eloquenza non bastano.
L’arte di Velazquez mantiene un lato in ombra, non si svende all’aggiustato sistema delle parole. È materia, è colore magistralmente sparso sulla tela, colore che si fa ricamo, terra, acqua, pelle. È colore che solleva l’umanità di un venditore d’acqua al rango di un sovrano o che immortala la smorfia ebete di un nano buffone di corte con una severità ferrea, senza commenti. Dandogli la dignità che la natura gli ha negato.
Tra il 1577 di Rubens e il 1632 di Jan Vermeer, tra la Normandia di Poussin e la Spagna di Velazquez, tra Delft, Anversa e Leida vengono al mondo cinque tra i maggiori pittori della storia. Una operosità immensa come quella di Rubens si affianca al catalogo sceltissimo di Vermeer, che non dipingeva più di un quadro all’anno. L’avventurosa biografia di Rembrandt van Rijn che si rovinò per la passione di collezionare dipinti, strumenti musicali, gioielli, armi, incisioni, contrasta con la severa serietà di Nicolas Poussin. Guardiamone gli autoritratti. Poussin è un filosofo inquieto, elegantissimo, che si effigia a Roma nell’anno del Giubileo. Rembrandt si confonde con gli straccioni del porto, li osserva per dipingerli e trasformare i loro e i suoi stracci in pittura magistrale. Vermeer cala lentissimo il punto di bianco per far brillare le perle; Velazquez sa far sentire il frusciare dei telai delle Filatrici.


L’Europa del Seicento è un gran crogiuolo dove gli stili vengono scelti, amalgamati, sovrapposti, dove i modelli e gli ideali si scambiano, si comunicano, si confondono.
È quella passeggiata in carrozza di Velazquez e Rubens. Un’immagine degna di loro, col rumore delle ruote sulla strada.

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