Il Barocco sacro e profano

Dal classicismo dei bolognesi Guido Reni e Guercino alla vocazione spirituale degli spagnoli Zurbarán e Murillo. Ma c’è anche la pittura mondana di van Dyck

Nel Seicento tutta Europa lo chiamava per nome, Guido, e non c’era bisogno di cognome. Era Guido e basta. Come Raffaello, come Michelangelo. Come Guercino. Che, appena ebbero termine le esequie solenni del caposcuola della pittura bolognese del Seicento, si affrettò a lasciare la piccola sua Cento per correre a Bologna e mettere su stanza, si diceva, proprio dietro il palazzo arcivescovile, in via Sant’Alò.
La grande pagina della pittura bolognese era cominciata alla fine del Cinquecento con due fratelli e un cugino, i tre Carracci che da giovani dipingevano insieme e non volevano che nessuno discernesse il lavoro dell’uno da quello dell’altro. E continuò, lungo tutto il Seicento, con la numerosa schiera di pittori che fecero di Bologna una delle capitali dell’arte d’Europa, il luogo dove il classicismo antico rinasceva nella misura moderna di uno stile capace di servire le leggi della Chiesa, rimesse in ordine da un cardinale bolognese, Gabriele Paleotti, che aveva dettato le norme per la corretta definizione delle immagini sacre dopo i dubbi della Riforma. Guido Reni (1575-1642) e Guercino (1591-1666) dettero misura universale alla bellezza secentesca delle forme tonde e dei trapassi soavi, delle grandi visioni mistiche e dei miti ritrovati, della luce mattutina e della serenità, della chiarezza. La scuola bolognese conquistò rapidamente l'Europa dei mecenati e del collezionismo.
Furono quasi contemporanei, impararono dagli stessi maestri, lavorarono per gli stessi padroni, si osservavano da lontano, se Bologna e Cento possono dirsi lontane. La natura li allettava entrambi con la verità, il chiaroscuro, le notti, le passioni. Guido le viveva queste notti, e finì la vita giocandosi tutto a carte, Guercino, invece, che partì impetuoso dalla maniera sontuosamente barocca di Ludovico Carracci, dai ferraresi e dai tramonti annuvolati della pianura padana, dovette diventare il nuovo campione del classicismo bolognese. Lo divenne, per amore o per forza, dopo il 1642, quando finalmente diventò il primo.
La Spagna è tanto cattolica quanto l’Italia. Ma i suoi pittori lo sono ancora di più. Francisco de Zurbarán (1598-1664) divenne presto interprete della spiritualità austera e drammatica che soddisfaceva le esigenze dei conventi e dei monasteri. Le sue immagini di santi e di sante, di visioni, miracoli e apparizioni presentano figure potenti che si stagliano sui fondi vuoti, astrattamente scuri e silenziosi. Lo seguì e superò Bartolomé Esteban Murillo (1618-1682), sivigliano che lavorò quasi sempre per i conventi e le chiese della sua città, raggiungendo un mirabile equilibrio tra devozione e bellezza, tra la severità della parola e la morbida umanità della rappresentazione.
Antonie van Dyck (1599-1641) aveva un anno più di Zurbarán e ne visse soltanto quarantadue. Partì da Anversa, dove fu allievo di Rubens, per arrivare in Inghilterra, dopo essere stato in Italia. Nelle pale d’altare è rivale di Rubens, e onora la memoria dei maestri italiani e di Tiziano. Ma in Inghilterra è solo, e non ha rivali.

Produce più di quattrocento ritratti e inventa un nuovo stile, che guarda lontano e aspetta Joshua Reynolds, e Thomas Gainsborough. Una natura aristocratica di alberi e di acque fa da sfondo ad aristocratici signori ammantati in vesti luminose. Niente conventi, niente chiese, ma dame e cavalieri, dorati, luminosi come santi ma soltanto uomini.

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