Nel calendario dello sport americano Marzo vuol dire solo una cosa: i playoff del basket NCAA, il complicato torneo dove si sfidano le migliori squadre della pallacanestro dei college a stelle e strisce. Dalle nostre parti è difficile capire quanto gli americani siano affezionati alla loro università, quella che chiamano "alma mater". Il più grande stadio in America non è quello di una franchigia NFL ma quello che ospita le partite dei Wolverines, la squadra di football dell’Università del Michigan. La Big House ed i suoi 107.601 posti a sedere non sono affatto un caso isolato: i primi 15 impianti sono tutti affiliati ad un’università. Il primo stadio NFL, il MetLife Stadium che vede giocare i Giants ed i Jets, è poco più piccolo del Memorial Stadium, casa dei Cornhuskers, squadra dell’Università del Nebraska. Eppure, nonostante i numeri impressionanti, il football non riesce ad avere niente di simile alla March Madness, il torneo finale che decide il campione NCAA.
La formula delle “final four” è stata poi importata in Europa, diventando più familiare, ma il livello di ossessione collettiva che vede ogni americano impegnato a compilare il “bracket”, ovvero le previsioni delle varie gare eliminatorie, è inconcepibile alle nostre latitudini. Ancora meno comprensibile, però, è il livello di ferocia di certe rivalità. Talvolta, però, l’antipatia per certe squadre supera i livelli di guardia, tanto da entrare nella leggenda. Alcuni giocatori, poi, sembrano fatti apposta per attirarsi l’odio dei rivali. La storia di come uno spilungone di vicino Buffalo divenne il giocatore più odiato della storia del basket è davvero affascinante. Ecco perché questa settimana "Solo in America" vi porta a Durham, North Carolina, per raccontarvi il mito di Christian Laettner, il giocatore che l’America amava odiare.
Duke, la Harvard del Sud
Per parlarvi di come questo centro molto atipico catturò l’attenzione di un intero paese e una serie di accidenti impressionanti, bisogna fare un passo indietro e parlare della squadra che lo schierava in campo, i Blue Devils della Duke University. L’enorme università che occupa buona parte della cittadina di Durham è un caso più unico che raro nel mondo dei college sports. La logica vorrebbe che le università di élite attirino gli studenti più ricchi o capaci, lasciando alle università statali il dominio nel mondo degli sport. Alcune di queste istituzioni, però, riescono a combinare eccellenza accademica con risultati impressionanti sul campo. Se Notre Dame ha dominato per anni il college football, stesso può dirsi nel caso del basket per i Blue Devils, vera bestia nera per tantissime altre università dove la pallacanestro è la religione non ufficiale. La cosa, ovviamente, non va molto a genio ai tifosi di queste università, che nel tempo hanno visto queste eccezioni come il fumo negli occhi. C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel vedere la squadra di un’università dove la retta annuale costa più di una berlina di lusso diventare campione, stracciando tutto e tutti.
Specialmente sotto la guida illuminata di coach Mike Krzyzewski, dal 1980 al 2022, Duke ha vinto 5 titoli nazionali, partecipando per ben 13 volte alla Final Four, una dynasty quasi mai vista nel mondo del basket NCAA. Gli anni dal 1988 al 1992 sono stati i migliori per i Blue Devils, che se la dovevano però vedere con un’altra squadra straordinaria, la Michigan dei “Fab Five”, cinque straordinari rookies guidati da gente del calibro di Chris Webber e Jalen Rose che facevano sognare gli amanti del basket. Il contraltare a questi giovani afroamericani sfacciati, prepotenti ed estremamente talentuosi era Duke, il nemico pubblico numero uno, l’università simbolo del Sud razzista, del privilegio, dello snobismo di chi, nato con ogni vantaggio, aveva l’ardire di togliere anche le soddisfazioni nello sport al resto del mondo. Duke era l’antitesi dei Fab Five, una squadra di figli di papà viziati adorata dall’America mainstream, dagli arbitri, dalle televisioni e dalla stessa NCAA.
In un documentario del 2011 Jalen Rose disse: “Odiavo tutto quel che Duke rappresentava. Università del genere non davano borse di studio a gente come me, reclutavano solo giocatori di colore ‘gestibili’, degli Uncle Tom”. I tifosi di Duke non sembravano soffrire questa campagna di odio: durante le partite, cantavano cori tipo “It’s all right, it’s OK, you’re gonna work for us one day!”, una roba tipo, “odiateci pure, tanto prima o poi lavorerete per noi”. La cosa che li rendeva ancora più antipatici era il fatto che tutti in America sapevano che avevano ragione, ma non avevano nemmeno la decenza di far finta che non fosse vero. Il capitano e stella di quella squadra sembrava fatto apposta per attirarsi contro l’odio dell’altra America, quella che non era nata con un cucchiaino d’argento nella culla.
Christian Laettner era alto, forte, biondo, bello, sembrava il modello di una pubblicità di Abercrombie & Fitch, la marca preppy che andava di moda all’epoca. A parte l’aspetto, non solo era bravo ma giocava con una ferocia mai vista prima, diventando uno dei più grandi della storia del basket universitario.
Quando le televisioni fanno vedere la classifica dei buzzer beaters, i tiri all’ultimo secondo, Laettner non ne ha uno, ma ben due. Il tiro che nel 1992 affondò Kentucky in uno dei finali più emozionanti delle March Madness del passato è semplicemente conosciuto come “the shot”: tutti sanno di cosa state parlando. Laettner, poi, giocava pure sporco: dava gomitate, faceva falli di nascosto dall’arbitro, tutto per far imbufalire i tifosi avversari. Le montagne di odio che riceveva le trasformava in carburante per far vincere la sua squadra.
Eppure, quello che molti considerano il più grande di sempre con Kareem Abdul-Jabbar, era lontanissimo dall’immagine che tutti avevano di lui. Peccato che tutti preferissero la sua immagine da supervillain ad una realtà molto più prosaica. Specialmente quando stracciava gente come Shaquille O’Neal era troppo facile da odiare.
Chi era Christian Laettner?
Nonostante tutti credessero che fosse un figlio di papà con l’hobby del basket, ingannati dal sorriso smagliante e dall’aria da privilegiato, Christian Laettner veniva da una famiglia normalissima ed aveva lavorato durissimo per arrivare a Durham. Nato in una cittadina vicino a Buffalo, nel nord rurale dello stato di New York, la famiglia Laettner non si sarebbe mai potuta sognare di pagare l’esorbitante retta di Duke. Erano gente normale, che lavorava duramente, risparmiando ogni centesimo per garantire un futuro migliore ai propri figli. Nonostante il cognome tedesco, erano d’origine polacca, proprio come il giovane e rampante coach di Duke, cosa che avrebbe avuto la sua importanza più avanti. Gente con pochi grilli per la testa, cresciuta con la consapevolezza che niente gli sarebbe stato regalato nella vita. D’estate, durante le vacanze scolastiche, Christian ed i suoi fratelli spesso lavoravano raccogliendo fagiolini o ortaggi in una fattoria vicino casa. Un sacco da 15 chili di fagiolini, 50 centesimi. Un lavoro massacrante, da spaccarti la schiena, ma non c’era altro modo per garantirsi qualche piccolo lusso.
La madre, Bonnie, voleva mandarlo alla Nichols School, una scuola privata fondata nel 1892 tra le più esclusive dell’area attorno a Buffalo, ma la retta era ben più di quanto potessero permettersi. Christian se la cavava a scuola ma non abbastanza da garantirgli una borsa di studio. Bonnie, un’insegnante, sapeva che fare le superiori alla Nichols avrebbe aperto tante porte al figlio, accordandosi per rateizzare la pesante retta negli anni successivi. Un grosso sacrificio, una scommessa sul suo futuro che responsabilizzò subito il giovane Christian. Ci metteva 40 minuti e tre diversi autobus per arrivare ma si mise di buzzo buono per avere buoni voti e sfruttare al massimo l’opportunità.
Parte del programma di assistenza finanziaria prevedeva che passasse parte dell’estate a scuola, lavando i pavimenti, tagliando l’erba, facendo altri lavoretti nel campus. Era forse lo studente più povero, l’unico a vestire abiti ordinati dal catalogo Sears, un’istituzione nell’America di una volta, l’unico dove si trovassero pantaloni abbastanza grandi per uno della sua stazza. Le cose cambiavano non poco sul parquet: era già due metri a sedici anni, tanto da guadagnargli un posto nella squadra varsity. I ragazzi più grandi lo massacravano di gomitate ma lui non faceva una piega: fu lì che imparò a rendere pan per focaccia a chiunque si mettesse tra lui e la vittoria.
Nel giro di meno di un anno entrò nei taccuini dei reclutatori di ogni università della Division 1, l'élite del basket NCAA, tanto da potersi permettere il raro lusso di scegliere. Non era un cannibale del canestro, ossessionato solo dalle sue statistiche personali; giocava per la squadra, per far fare bella figura anche ai suoi compagni. Quando segnò “solo” 14 punti, 14 rimbalzi e 14 assist, il padre gli chiese perché non si fosse preso più tiri. La risposta lo lasciò di stucco: “Devono far bene anche gli altri”.
Alla fine si scatenò una guerra tra le varie università ma a fare la differenza fu, come succedeva spesso, il savoir faire di coach K. Sebbene i genitori, ferventi cattolici, spingessero perché accettasse l’offerta dei Fighting Irish di Notre Dame, Christian non ne voleva sapere. Il meglio del basket, il più puro, elegante, era quello della Atlantic Coast Conference, quella dove giocava Duke. Krzyzewski aveva visto per pochi minuti Laettner qualche tempo prima ed era rimasto impressionato dalla sua voglia di spaccare il mondo, da come riusciva a tenere in mano la squadra, dal suo amore per il basket. Dall’unione di un ragazzone ossessionato dall’idea di vincere e un tecnico dalle idee molto precise sarebbe venuta fuori una carriera memorabile, tanto da rimanere nei libri di storia.
Perché era così odiato?
Difficile riassumere in poche parole l’impatto di Christian Laettner sul college basketball: due titoli nazionali, record NCAA di partite vinte, punti segnati, partite giocate e chi più ne ha più ne metta. Eppure tutti gli amanti del basket lo ricordano come il simbolo dell’antipatica Duke, la great white hope della pallacanestro tradizionalista contro l’avanzare delle squadre più alla moda come Michigan o Las Vegas. Laettner non solo era bravo ma prendeva in giro gli avversari, li sfidava, rendendo colpo su colpo a chi osava sfidarlo nel pitturato. La cosa che però lo rendeva davvero insopportabile era come fosse disposto a tutto pur di vincere, anche aizzare i suoi compagni di squadra per farli rendere al meglio. Coach K lo ricorda come “un ribelle”, uno che adorava far arrabbiare gli avversari fingendosi arrogante per approfittare delle loro debolezze. Se ingabbiato in una struttura di gioco moderna, Christian Laettner poteva essere devastante.
Ai neri, poi, stava antipatico perché si comportava proprio come i loro idoli, con la spudoratezza e l’aggressività di un Isiah Thomas ma nel corpo di un bianco, biondo e con gli occhi azzurri. C’era chi lo considerava un bullo, uno che giocava sporco, come quando assestò un calcio sul torace del difensore dei Wildcats Aminu Timberlake nella finale NCAA del 1992. Lo scopo era chiaramente quello di umiliare l’avversario, non di fargli male ma per qualche ragione Laettner si beccò un tecnico ma non fu espulso. Da qui alle accuse di favoritismo da parte degli arbitri il passo fu brevissimo. La vendetta di Christian? Il tiro a fil di sirena che garantì l’accesso alla Final Four a Duke. Il tiro più famoso assieme a quello di un certo Michael Jordan ai tempi di North Carolina è stato celebrato per anni ma fu una pugnalata nel cuore di chi amava odiare Christian Laettner.
La stella di Buffalo non è certo l’unica nel panorama americano ad essere ossessionato dalla vittoria e ad essere disposto a tutto pur di arrivarci. Eppure gente come MJ, Kobe Bryant o il campionissimo dell’hockey Wayne Gretzky non sono odiati come Laettner. Il fatto di essere associato ad un’università d'élite come Duke non l’aiutò a guadagnarsi le simpatie del pubblico ma in realtà la gente non poteva soffrire la sua arroganza dentro e fuori dal campo. Ogni tanto esagerava, ma quel che faceva non era per caso: serviva sempre a tirare fuori il meglio da sé e dai suoi compagni di squadra. Laettner è forse stato più uomo squadra di quanto non sia mai stato Kareem o lo stesso MJ ai tempi del college.
Nonostante fosse soggetto ad ogni genere di insulto, tirava dritto come se niente fosse, occhi fissi sulla palla e sul vero obiettivo, la vittoria. Alle televisioni e agli sponsor, ovviamente, andava benissimo: sia che lo adorassi o non lo potessi soffrire, tutti guardavano le partite di Duke. Anche se non era la parodia che tutti credevano, serve anche gente come lui per rendere gli sport appassionanti. Il fatto stesso che abbia vinto quanto abbia vinto nonostante le tonnellate di odio che riceveva è prova provata che fosse davvero unico. Certo, ogni tanto usava un po’ troppo i gomiti ma, in fondo, nessuno è perfetto.
La diceria più crudele
Alle volte, però, il livello di odio che circondava Laettner superava di gran lunga i limiti di guardia. L’8 febbraio 1992, quando i Blue Devils si presentarono a Baton Rouge per sfidare LSU e la sua giovane stella, un certo Shaquille O’Neal, il pubblico si scatenò contro il capitano di Duke. A parte i soliti cori, i tifosi dell’università statale della Louisiana usarono una serie di insulti omofobici che oggi farebbero scattare sicuramente squalifiche e multe pesantissime. L’abuso fu talmente severo da costringere i telecronisti ad abbassare l’audio ambientale: “Non possiamo ripetere quel che stanno dicendo”. Intervistato qualche anno dopo, padre di tre bambini, l’ex stella di Duke ammette che quei cori irripetibili non lo lasciarono indifferente: “Gli insulti facevano male, ma i media gonfiano storie che dovrebbero essere lasciate morire da sole. Sapevo di non poterci fare niente. Se mi guardavo nello specchio sapevo che quella roba non era vera ma certo non era normale far credere alla gente che fossi gay. Anche nel 1992 non era un comportamento accettabile”.
A cosa erano dovute queste dicerie indegne? Prima di tutto Laettner coltivava con cura l’immagine del “pretty boy”, il belloccio che si sistemava i capelli durante la partita, che non faceva niente per negare le accuse di essere un playboy impenitente. Essere poi il volto di una squadra universalmente odiata non fu che la ciliegina sulla torta. All’epoca, poi, lo stesso concetto di omofobia avrebbe fatto semplicemente ridere. Gli insulti contro i gay erano talmente comuni da trovar posto anche nelle serie televisive.
A far scattare qualche sospetto, poi, fu il rapporto con il compagno di squadra Brian Davis. Grant Hill ricorda come una volta Laettner gli disse che a lui importavano solo tre cose: il basket, avere buoni voti e Brian. Doug Collins, che l’allenò nella NBA, ricorda come i due fossero fin troppo amichevoli quando giravano nel campus e come Laettner non si curasse troppo delle voci. Quando iniziò a giocare da professionista, il capitano regalò una macchina nuova al suo grande amico, cosa che fece scatenare i pettegolezzi. In un’intervista al settimanale GQ, l’ex stella di Duke parla di come riuscì a convivere con queste perfide cattiverie: “Quando iniziai a giocare nella NBA queste voci divennero sempre più rare, per sparire del tutto quando mi sposai. E pensare che tutto è nato da una battuta infelice che rilasciai ad un giornalista di Sports Illustrated, tifosissimo di Carolina. Mi chiese cosa avrei fatto nelle vacanze estive e gli risposi qualcosa tipo ‘rimarrò qui con Brian’. Lui era seduto accanto a me e ci facemmo una bella risata. Da lì alla diceria che fossi gay è stato un niente. Col tempo divenne una vera ossessione, tanto da farmi disperare. Non era la verità, so bene come sono fatto, quindi non era difficile lasciarsi scivolare tutto addosso ma non fu una situazione simpatica. Mi prendevano in giro, mi urlavano contro roba assurda, me lo sentivo dire anche dai giocatori della squadra di football della mia università. Non era bello ma allo stesso tempo non mi faceva perdere il sonno”. Riuscite ad immaginare il putiferio che succederebbe oggi di fronte ad insulti del genere? Sembra un altro mondo ma stiamo parlando di eventi successi appena trent’anni fa…
L'NBA è un'altra cosa
Dopo le tante vittorie, il futuro di Christian Laettner sembrava assicurato. Non molti se lo ricordano ma nel Dream Team di Barcellona 1992, assieme a Larry Bird, Magic Johnson e Michael Jordan c’era anche lui. Eppure la superstar del college basket è l’unico di quella squadra straordinaria a non avere ancora un posto nella Basketball Hall of Fame di Springfield, Massachusetts. Il fatto che forse il più grande di sempre all’università non sia riuscito a diventare una stella anche da professionista è uno dei tanti misteri del basket moderno. Intendiamoci, non è che dimenticò del tutto come si gioca: nei 13 anni passati nella lega mise una media di 12,8 punti a partita e 8,8 rimbalzi, statistiche rispettabilissime per uno “normale” ma non per un fenomeno come lui.
Laettner divenne un solido rotation player, uno di quelli che gli allenatori mettono in campo nei momenti chiave della partita ma non fu mai in grado di trasformare in realtà le enormi aspettative che lo circondavano. Se a Minnesota sembrava pronto per entrare nell’olimpo dei migliori della lega, il passaggio agli Atlanta Hawks fu, in un certo senso, l’inizio della fine.
Come un altro grandissimo del basket, Drazen Petrovic, non fu semplice per lui farsi strada in una delle NBA più fisiche di sempre. C’è chi diede la colpa al bagno di umiltà del Dream Team, al suo fisico poco muscoloso, decisamente poco adatto alle battaglie sotto canestro di quei tempi ma Laettner avrebbe potuto fare molto di più anche da professionista. Gli amanti del basket amano speculare su come un talento come il suo avrebbe potuto giocare nell’NBA di oggi, dove il ritmo e la tattica hanno preso il posto della fisicità degli anni ‘90. Certo, non aveva un gran tiro dalla media distanza, ma la sua ferocia in campo avrebbe potuto fare la differenza in molte squadre moderne.
Dopo la fine della carriera, qualche problema finanziario di troppo ha perseguitato Laettner, tanto da condurlo qualche anno fa alla bancarotta. Quando un affare immobiliare nella “sua” Durham si rivelò più complicato del previsto, l’ex stella di Duke fu costretto a ripagare 14 milioni di dollari ai suoi creditori. Cosa combina oggi? Dopo aver provato una carriera da allenatore nella D-League, la lega di sviluppo della NBA, ha deciso di insegnare basket ai campioni di domani tramite la sua Basketball Academy.
Sono passati tanti anni da quelle polemiche eppure molti in America
continuano ad odiarlo, contro ogni logica, senza sapere bene il perché. A lui, in fondo, non dispiace nemmeno troppo. Il suo posto tra i migliori di sempre dello sport non glielo toglierà nessuno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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