Tra i tanti critici del modo di approcciare il mondo comune dall’altra parte dell’Atlantico, molti affermano che lo sport a stelle e strisce non è intrinsecamente migliore di quello europeo, ma solo raccontato meglio. A parte grondare spocchia e invidia, quest’affermazione non è del tutto priva di fondamento. Per un paese giovane come gli Stati Uniti, che ancora fatica a lasciarsi dietro l’eco di una crescita disordinata e non priva di incidenti di percorso, l’unica mitologia accettabile da tutti è quella dello sport, trasformato in un vero e proprio romanzo popolare. La cosa che, però, rende diverso il panorama sportivo oltreoceano è il fatto che, ad ogni livello, si sia sempre molto attenti al fattore spettacolo. Diciamo che il memo del Barone de Coubertin si dev’essere perso per strada.
Vincere è fondamentale ma farlo facendo divertire il pubblico è ancora più importante. Alle volte capita che alcune squadre mettano in campo uno show talmente incredibile da rimanere impresse per sempre nell’immaginazione collettiva. Quando poi si aggiunge anche un soprannome memorabile, la ricetta per una leggenda metropolitana è servita. Ecco perché, questa settimana, Solo in America vi porta giù nel sud, non lontano dal confine col Messico, dove nei primi anni ‘80 una squadra di college basketball riuscì a catturare l’immaginazione di un intero Paese a forza di schiacciate. Questa è la storia di come un gruppo di ragazzi texani si guadagnò uno dei soprannomi più belli di sempre.
La poesia della schiacciata
Immaginare la pallacanestro senza i salti miracolosi di Michael Jordan o la cattiveria di un Blake Griffin è praticamente impossibile, ma per parecchi anni questo elemento alla base dello spettacolo odierno era considerato roba da playground. Se dal lato dei professionisti ci aveva pensato un certo Julius Erving a cancellare il divieto, il cammino nel mondo dell’NCAA era stato più complicato.
Agli inizi degli anni ‘80, però, anche i ragazzi delle università potevano scatenarsi e provare ad imitare il mitico Doctor J. Quello che però succedeva all’Hofheinz Pavillion, il palazzetto dell’Università di Houston, non si era mai visto prima. Guardandosi in giro, i tifosi dei Cougars non si stupivano di vedere giocatori della NBA arrivati per guardare non solo le partite ma anche gli allenamenti della squadra che stava reinventando il modo di giocare a pallacanestro.
Intervistato qualche anno dopo, una delle guardie più micidiali a vestire la maglia di Houston, un certo Clyde Drexler, disse che “sembrava di far parte dei Beatles” e non possiamo dargli torto. L’hype che circondava la squadra del Texas ed il suo gioco tutto ripartenze fulminee, pressione a tutto campo e soprattutto schiacciate su schiacciate li seguiva ovunque giocassero.
Quello che poi sarebbe stato conosciuto come The Glide, l’aliante, ricorda che, ovunque andassero, “la gente veniva all’albergo o entrava nel palazzetto prima per vedere le schiacciate che facevamo in allenamento. Era una specie di ossessione e non erano solo tifosi di Houston, ma gente da ogni parte del mondo. Non riuscivo a crederci. Un fenomeno del genere, probabilmente, non si ripeterà mai più”. Il pivot dei Cougars, Greg Anderson, non si nasconde: “volevamo schiacciare sempre. Appena si apriva una ripartenza, correvamo come dei pazzi per arrivare a schiacciare prima degli altri”.
La cosa veramente notevole, però, era che questi virtuosi dello slam dunk non erano come gli Harlem Globetrotters. Quei Cougars giocavano davvero bene e, soprattutto, vincevano parecchio: nei tre anni nei quali quel quintetto dominò il mondo del college basketball, Phi Slama Jama vinse 88 partite, perdendone solo 16. Spettacolo e vittorie, la ricetta perfetta per far innamorare il mondo.
Stile e sostanza
C’è chi dice che questo stile di gioco cambiò per sempre la NCAA, che non aveva mai visto con molto favore gli eccessi resi popolari ovunque dalla ABA, la defunta rivale della NBA. Dal 1967 al 1976 la massima autorità degli sport americani aveva addirittura vietato le schiacciate ma era stata costretta a tornare sui propri passi dalle proteste delle televisioni. La gente voleva più spettacolo e Houston era pronta ad offrirglielo. L’ex ala dei Cougars, Michael Young disse che “eravamo ad un bivio nella storia del basket e contribuimmo a farlo diventare quello che conosciamo oggi”. Eppure, a sentire Drexler, a rendere Phi Slama Jama così efficace fu il tecnico Guy Lewis, l’unico capace di far convivere senza problemi così tanti giocatori di talento.
Quando fu introdotto nella Basketball Hall of Fame nel 2013, tutti riconobbero il suo genio nello sposare la schiacciata, quella che definiva un “tiro ad alta percentuale di riuscita”. Lewis, come succede spesso nello sport universitario, era rimasto alla guida della squadra di basket per moltissimi anni, dal 1956 al 1986, ma non era stato in grado di ripetere i successi delle stagioni 1967 e 1968, quando i Cougars erano arrivati alla Final Four grazie alle prestazioni del grande Elvin Hayes.
Per riuscire a riportare in alto Houston, Lewis iniziò a guardarsi intorno, cercando nelle scuole superiori della metropoli del South Texas i giocatori più promettenti. Ben 14 dei giocatori che crearono il mito di Phi Slama Jama erano tutti di Houston, a partire da Rob Williams e Larry Micheaux, cui si sarebbero aggiunti, poco alla volta, lo stesso Drexler e Michael Young. Quella che venne scherzosamente definita la “confraternita più alta del Texas” avrebbe poi ricevuto un regalo inatteso, uno spilungone trasferitosi con la famiglia dalla Nigeria prima della stagione 1981-82.
Con la prepotenza di Hakeem Olajuwon sotto il tabellone, niente sembrava in grado di resistere all’ignoranza scanzonata dei Cougars. C’era chi, tra il serio e il faceto, diceva che coach Lewis avrebbe potuto reclutare giocatori usando la bicicletta, il che può avere senso solo per chi non sa quanto siano enormi le città in Texas, ma la sostanza non cambia. Con tanti talenti a disposizione, Houston dominò per tre anni la Southwest Conference, schiantando gli avversari con un ritmo forsennato e una media di ben 78,8 punti a partita, molti dei quali con schiacciate spettacolari. Arrivare a tre Final Four consecutive facendo andare in visibilio il pubblico: niente male davvero per un gruppo di ragazzi del posto.
Vincenti? Non proprio
Qualche anno fa, in una delle tante classifiche che piacciono agli americani, il sito Bleacher Report definì il quintetto base di Houston composto da Olajuwon, Micheaux, Drexler, Young e Franklin il terzo migliore della storia del basket NCAA. Affermazione importante che però è confermata da alcune statistiche di questa squadra davvero memorabile. Nella sua stagione migliore, la 1982/83, i Cougars vinsero 31 partite, perdendone solo tre. Il distacco medio inflitto agli avversari fu un umiliante 18 punti ma la cosa che li rese memorabili fu il numero spropositato di schiacciate messe in quelle 34 partite: più di duecento.
Eppure, nonostante facessero davvero faville sul parquet, quei Cougars che avevano in campo due futuri Hall of Famers non riuscirono mai a vincere un titolo NCAA. Houston è una tra le 10 università ad aver raggiunto la Final Four per tre stagioni consecutive ma otto di queste squadre riuscirono a vincere il trofeo. Solo UCLA dal 2006 al 2008 può “vantarsi” di essere arrivata per così tante volte ad un passo dal trionfo tornando a casa con le pive nel sacco.
La prima partita di Phi Slama Jama alla Final Four di New Orleans è entrata di diritto nella storia del basket, visto che davanti avevano nientepopodimeno che i Tar Heels di un certo Michael Jordan. In una semifinale tra le più belle di sempre, quel 27 marzo 1982 si iniziò a capire che quella North Carolina aveva gente in grado di fare davvero grandi cose. A parte MJ, coach Dean Smith aveva anche una coppia niente male: James Worthy e Sam Perkins. Nonostante una prestazione eroica di Hakeem nel pitturato, la difesa riuscì ad annullare Williams, il miglior tiratore dei Cougars, concedendogli solo due punti, con una media tiro atroce di 0 su 8. Una delusione, certo, ma trovarsi di fronte uno come Michael Jordan non capita ogni cinque minuti.
L’anno dopo, Houston riuscì ad approdare alla finalissima e si trovò di fronte la sesta testa di serie, la North Carolina State di coach Jim Valvano. Houston veniva da una stagione memorabile e sembrava pronta a pulire il parquet con il Wolfpack. Le cose, però, si misero male ben presto, trasformando il Pit di Albuquerque in una vera e propria bolgia infernale. Con Drexler limitato da troppi falli già dal primo tempo, Hakeem provò a trascinare la squadra alla vittoria mettendo 20 punti e 18 rimbalzi. Nonostante tutto, la partita si decise all’ultimo secondo con un crudele scherzo del destino: Phi Slama Jama, la confraternita della schiacciata, fu battuta da una slam dunk a fil di sirena di Lorenzo Charles. Gli dei del basket hanno un perverso senso dell’umorismo.
Quando il 2 aprile 1984 i Cougars si presentarono al Kingdome di Seattle, casa dei SuperSonics, tra di loro e l’agognato titolo trovarono ancora una compagine straordinaria, gli Hoyas del signor Patrick Ewing. In quella che venne definita la “battaglia dei giganti” tra due dei pivot più decisivi della storia del basket, ad avere la meglio fu Hakeem Olajuwon, che mise 15 punti e 9 rimbalzi rispetto ai 10 e 9 della futura stella dei Knicks. Purtroppo per Houston, però, Georgetown mise un’impressionante prestazione di squadra, portando in doppia cifra cinque giocatori. A ridere e portarsi a casa il trofeo fu coach John Thompson.
Una lunga storia d'amore
Nonostante le molte delusioni inflitte ai tifosi del South Texas, però, nessuno in città riusciva ad averne abbastanza dei giocatori dei Cougars. Ad aiutarli non poco fu il famoso soprannome, coniato il 2 gennaio 1983 dal giornalista dello Houston Post Thomas Bonk, dopo una partita quasi amichevole contro i Pacific Tigers. Nonostante non fosse una gara valida per la propria conference, i Cougars si scatenarono, annichilendo i rivali per 112 a 58. A colpire il giornalista fu l’assurdo numero di schiacciate: ben 29 in una sola partita.
La frase che avrebbe coniato un soprannome tanto fortunato da essere registrato dall’università texana ed usato in mille prodotti di merchandising è tanto ardita da sembrare quasi ridondante: “Come membri dell’esclusiva confraternita della palla a spicchi Phi Slama Jama, la sezione di Houston ha imparato finalmente le giuste procedure parlamentari”. Cosa c’entra il parlamento, mi chiedete? Le colorite fraternities rese popolari da mille filmetti americani si riuniscono in quello che è definito il “Consiglio Greco” per discutere di temi importanti per la vita degli studenti universitari.
Bonk ricorda come la squadra avesse qualcosa di speciale, oltre allo spettacolo mostrato sul parquet. “Erano davvero interessanti, li seguivo anche in allenamento. Era un periodo magico: a parte essere molto divertenti da guardare, erano pure molto efficaci dal lato della comunicazione. Meritavano davvero un soprannome memorabile”. Da quell’articolo tutti iniziarono ad usare il soprannome, mettendolo sulle magliette, scrivendolo a pennarello nei cartelloni fatti a mano che sono da sempre popolari oltreoceano. Il dipartimento marketing dell’università saltò sul carro del vincitore, ordinando di realizzare delle giacchette di nylon con il soprannome da usare per il riscaldamento pre-partita.
Arrivarono le delusioni ma anche partite memorabili, come la semifinale della Final Four che vide Phi Slama Jama vedersela con i “dottori della schiacciata” di Louisville. Il festival dello slam dunk, che molti considerano una delle partite più belle di sempre delle finali NCAA vide una prestazione spettacolare di Hakeem Olajuwon: 21 punti, 22 rimbalzi ed otto schiacciate. La stella dei Rockets, qualche anno più avanti, la definì una di quelle partite che “non dimenticherai per tutta la vita”.
Eppure, come succede sempre nel basket universitario, Houston stava perdendo pezzi per strada. Il primo ad andarsene un anno prima del previsto fu Clyde Drexler, seguito l’anno dopo dalle altre due stelle Olajuwon e Young, prime scelte rispettivamente degli Houston Rockets e dei Boston Celtics di Larry Bird. Phi Slama Jama era finita ma nessuno nel South Texas ha mai dimenticato quella straordinaria squadra. Più di trent’anni dopo Young si sta iniziando a rendere conto di quanto sia stata incredibile la loro cavalcata: “Non penso che la gente si renda conto di quanto sia difficile arrivare alla Final Four, non è roba da tutti. Certo, avremmo voluto vincere almeno un titolo ma sono orgoglioso lo stesso di quel che abbiamo fatto allora. So che tutti i miei compagni di squadra la pensano come me”.
Dove sono finiti?
Come succede sempre nel basket universitario, anche nella squadra più straordinaria non tutti riescono a ripetersi anche da professionisti. Gli Houston Cougars non hanno fatto eccezione. Dare un’occhiata a che fine hanno fatto i talenti di Phi Slama Jama è uno spaccato affascinante di quegli anni. Chiunque abbia visto cinque minuti di basket tra gli anni ‘80 e ‘90 sa bene cosa ha fatto il signor Hakeem Olajuwon nella NBA. The Dream arrivato da numero uno del draft, passò 17 stagioni ai Rockets, trascinandoli alle due storiche vittorie del 1994 e 1995. Il dodici volte All-Star è stato il primo ad arrivare a 2000 stoppate e 2000 rubate nella storia della NBA, conquistandosi un posto d’onore nella Basketball Hall of Fame.
A parte occuparsi di immobili, Hakeem ha fatto scuola a diversi giocatori di cui magari avete sentito parlare, da Kobe Bryant a Dwight Howard. Altrettanto incredibile la carriera del suo sodale Clyde Drexler, protagonista per tanti anni in quel di Portland. Per vincere il suo unico titolo NBA, dovette però tornare a casa, dando una mano ad Hakeem coi Rockets. Uno dei 50 migliori giocatori di sempre, provò anche a riportare alla gloria i suoi Cougars dal 1998 al 2000, senza molto successo.
Gli altri? Che dire di Michael Young, il miglior marcatore dei Cougars conosciuto con lo splendido soprannome di Silent Assassin? Al contrario dei suoi compagni di squadra, l’impatto con la NBA non fu dei più semplici. Trovare spazio nei Celtics di Larry Bird non era affatto semplice, tanto da convincerlo dopo tre anni a cercare fortuna all’estero. Gli appassionati del basket europeo magari se lo ricorderanno nel 1992, quando trascinò Limoges alla sua prima Coppa dei Campioni, battendo in finale la Benetton Treviso di Toni Kukoc.
Tornato ai Cougars nel 1998 è ancora all’Università di Houston come direttore della squadra di basket. Larry Micheaux, Mr. Mean, dopo qualche anno passato tra Chicago e Milwaukee giocò un anno a Varese per poi finire la carriera in Spagna. Ora fa l’insegnante e allenatore di basket alla Stafford High School. Rob Williams, uno dei migliori marcatori della storia dei Cougars, fece un paio di stagioni a Denver prima di giocare in Italia, Australia, Spagna e nelle Filippine. Vive ancora a Houston, come molti dei suoi ex compagni. Chi insegna, chi ha una ditta di costruzioni come Alvin Franklin, ma quasi tutti sono tornati a casa, dove rimarranno per sempre famosi come la “confraternita più alta del Texas”.
Di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta ma, almeno da quelle parti, nessuno dimenticherà mai i ragazzi di Phi Slama Jama. Non c’è niente da fare, storie come queste possono succedere solo in America.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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