Basta con gli intellettuali del "non fare"

Campi, studioso di area Pdl, critica l’azione del governo sulle emergenze ma rischia un’interpretazione miope dell’operato di Berlusconi. Dalla discesa in campo, fino agli interventi concreti come la ricostruzione dell’Abruzzo dopo il terremoto

Gentile Direttore,
sempre più spesso mi persuado che certi intellettuali non riusciranno mai a comprendere e a dare ragione del cosiddetto «berlusconismo», cioè delle ragioni e del significato della presenza di Silvio Berlusconi nella storia italiana. Lo conferma anche l’ultimo articolo di Alessandro Campi, che pure milita nello stesso partito fondato dal presidente del Consiglio.
Credo che la ragione principale di questa incapacità degli intellettuali italiani di capire il significato più profondo dell’esperienza politica di Silvio Berlusconi risieda nella natura stessa del lavoro intellettuale.
Gli intellettuali in genere, anche coloro che sono meno propensi a una lettura ideologica della realtà, reputano di dover svolgere una missione: quella cambiare la realtà politica di una determinata società.
Le loro teorie, le loro dottrine, i loro convincimenti precedono la conoscenza della realtà effettuale, nei confronti della quale emettono generalmente giudizi di imperfezione se non di vera e propria condanna morale.
Secondo gli intellettuali, la realtà deve adeguarsi alle loro vivide elaborazioni, la vita ha bisogno di elevarsi alla chiarità e perfezione dei concetti. Se la realtà e la vita reale resistono o contraddicono alle loro idee, allora peggio per la realtà e per la vita stessa.
In questo modo, la cultura si condanna all’irrilevanza oppure, nel peggiore dei casi, come è avvenuto a sinistra, a produrre inferni e a doverne poi giustificare le ragioni storiche.
C’è un’altra strada da seguire, più fertile e costruttiva, per gli uomini di cultura? Sì, ci deve essere un’altra possibilità di far calare gli ideali nella realtà, senza presumere di imporre un cambiamento dall’alto, calato a partire dai disegni degli intellettuali impegnati, bensì accompagnando, orientando, dirigendo i cambiamenti e le trasformazioni della società verso traguardi di maggiore libertà e di maggiore giustizia.
Questa è la cifra più autentica del riformismo, sia di matrice cattolico-liberale che di origine laico-socialista, che fa leva sulle persone, sulla forza delle loro relazioni naturali e associate, sul dinamismo della società civile, sulla vitalità del tessuto sociale e culturale che si organizza innanzitutto sulla base delle comunità locali.
In fondo, l’originalità del tessuto economico e sociale del nostro Paese, che ha retto agli scossoni della crisi economica internazionale, proviene dalle opere che il movimento cattolico e quello socialista hanno realizzato a livello della società civile, più che dall’intervento centralizzato dello Stato, dei partiti e perfino della Chiesa.
Come dimostra l’articolo di Campi, gli intellettuali pensano in tutt’altra maniera: pensano soprattutto a «programmazioni o ad un disegno politico di ampio respiro», alludono sempre a «visioni di ampio respiro e a grandi realizzazioni», inorridiscono a «scelte di governo in un’ottica di breve periodo».
È naturale che se questi sono i presupposti dell’analisi di Campi, tutto ciò che non è ascrivibile a questa progettualità di ampio respiro, tipica di una cultura di sinistra, viene derubricato a una concezione emergenziale della politica, ad una forma di politica che si esaurirebbe nella contingenza e che si eserciterebbe su base volontaristica e discrezionale. Da qui le critiche alla cultura politica che sorregge il berlusconismo, che sono totalmente avulse dalla realtà, in coerenza con l’atteggiamento intellettualistico che condiziona ormai completamente anche l’amico Campi.
Se considerassimo davvero i fatti, dovremmo dire che tutti i governi del mondo, compreso quello degli Stati Uniti, di fronte alla crisi economica hanno abdicato al ruolo progettuale della politica, inseguendo un radicale occasionalismo e un attivismo solitario, che Campi attribuisce a Berlusconi.
In realtà, sappiamo che non è così, che ciascun governo ha preso, sull’onda dell’emergenza e del cambiamento, misure improntate ad un sano pragmatismo e realismo. Da questo punto di vista, l’Italia ha dato un contributo originale e propositivo. E che dire delle emergenze dei rifiuti di Napoli, del terremoto dell’Aquila e del salvataggio dell’Alitalia? La «cultura del fare» ha ridato fiducia alla politica, degradata da anni di chiacchiere inconcludenti e di progetti di vasto respiro che hanno ingombrato gli uffici senza produrre alcunché.
Anche per quanto riguarda la questione della politica in senso stretto e le dinamiche interne al nostro partito, non capisco come Campi possa parlare di una concezione fondata su una «rivoluzione permanente», impedendo un disegno organico (sic) e una formula organizzativa stabile. Possibile che uno studioso come lui possa tralasciare di menzionare le tappe e i risultati ottenuti da Berlusconi dal 1994 ad oggi? Glieli rammento sommariamente: fondazione di Forza Italia, sconfitta della sinistra comunista, sdoganamento della destra italiana, evoluzione della Lega da movimento secessionista a partito territoriale-nazionale, nascita del Pdl.

Questi risultati, che dovremmo definire straordinari, sono il frutto - caro Campi - di una visione emergenziale oppure di una politica vera, coraggiosa e aperta al futuro, di cui Berlusconi è stato ed è il protagonista?
Se non innalziamo lo sguardo a questi risultati e a questo livello, con spirito critico ma allo stesso tempo obiettivo, non faremo un solo passo avanti, e disperderemo un grande traguardo storico, da cui dobbiamo partire per compiere insieme un ulteriore tratto di strada per il bene dell’Italia.
*Ministro dei Beni culturali e coordinatore Pdl

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