
Il nuovo libro di Matteo Righetto, Il richiamo della montagna (Feltrinelli, pagg. 128, euro 14) è un pamphlet. O almeno così lui lo definisce. Di solito i pamphlet sono corti e infatti questo ha poco più di cento pagine, ma questo scrittore e «filosofo della montagna» il passo lungo lo conosce bene: lo ha sperimentato in una trilogia epica come L'anima della frontiera (Mondadori), ma anche nei suoi ultimi due romanzi, La stanza delle mele e Il sentiero selvatico (entrambi Feltrinelli) in cui percorre a ritroso la magia della primitività incarnata da una protagonista indimenticabile, Katharina Thaler. Stavolta invece, in un saggio che pare dedicato alla montagna e invece è una coltissima e impetuosa incitazione agli umani - ispirata più a Jack London, Nietzsche e Rigoni Stern che all'ambientalismo seriale, e di certo più spirituale che politica - Righetto arriva al punto nelle prime pagine, ha fretta che capiamo al volo: «Spesso si dimentica che una montagna, qualunque montagna... non è soltanto un gigantesco rilievo posto tra centinaia di altri rilievi; non è semplicemente una montagna oggetto di studi da parte di scienziati, glaciologi, geografi, geologi... Potremmo mai infatti pensare ai nostri genitori o ai nostri figli, o alle persone che amiamo, come a un ammasso di ossa e carne? Pensiamo a loro con affetto, empatia, amore, emozioni profonde». Emozionarsi bisogna, adesso, subito, perché tempo da perdere non ce n'è più. E tornare alla montagna fa emozionare sempre.
Come si spiega la montagna a chi non la conosce?
«La montagna non appartiene a chi ci nasce o a chi ci vive, appartiene a chi la ama. Non farei una distinzione tra chi la conosce e chi la frequenta solo come turista. È una questione di sensibilità e di relazione. Dobbiamo uscire dall'idea manichea per cui esiste solo il montanaro buono e il turista maleducato. Lo so che Lao Tzu ha scritto che Un albero che cade fa più rumore della foresta che cresce: l'overtourism fa di certo più rumore del turismo educato e rispettoso dell'ambiente, ma per contro si consideri che ci sono anche montanari che vedono il proprio territorio come qualcosa da sfruttare e mercificare. Se no cadiamo nei soliti cliché».
Istruzioni per l'uso di questo pamphlet?
«Il libro ha una pars destruens iniziale più polemica e una pars construens dove provo a suggerire il modo per ricostruire il rapporto con il territorio come sociale e collettivo e per disvelare un significato sacro rispetto al luogo dove mettiamo i piedi o gli scarponi. Viviamo in un mondo polarizzato tra ecologisti e ambientalisti che vedono la scienza come unica soluzione e un turismo volgare, che assomiglia a un'orda neobarbarica senza alcun rapporto spirituale con il creato».
E lei in quale ruolo vorrebbe entrare nell'arena?
«Io credo che non risolveremo mai i problemi tra uomo e ambiente se non parliamo alle coscienze. Se non riscopriamo la bellezza di un lariceto. Il suono di un bosco. La neve che si fonde e si fa ruscello ed è benedizione ogni vota che accade. Mi rifaccio a una spiritualità ancestrale, che riguarda le antiche sapienze che abbiamo perduto addomesticandoci completamente e realizzando un antropocentrismo che è ormai a fine corsa».
Quello che nel libro chiama silvaticus, o anche senso dello Heimgang, dello Heimkomu, del Jì a ciasa. Di che si tratta esattamente?
«Riscoprire lo spirito selvatico non significa essere primitivisti o tornare indietro nel tempo, ma fare leva sul sentimento quasi magico che proviamo quando ci troviamo di fronte alla bellezza che ci dà quasi un'estasi. Ci sono turisti che pensano alla montagna come un playground, un egodromo: devo fare quella parete, quanto ci hai messo da qui a lì, quanto dislivello. Certo turismo è anche creato a tavolino nelle agenzie: se a 2500 metri offro spaghetti con le vongole la colpa è del turista o del finto rifugista? Dobbiamo tornare in ascolto: il bramito del cervo non si può riprodurre quando vogliamo ma accade solo in un periodo preciso dell'anno».
Ci sono due punti di non ritorno in questo libro: il collasso della Marmolada e Vaia.
«Il collasso parziale di un ghiacciaio e la tempesta più terribile degli ultimi cento anni, con gli effetti devastanti del bostrico che si è sviluppato a posteriori. Stampa, tv, politica si sono soffermati solo sugli effetti, nessuno ha mai insistito sulle cause, che hanno radici profondissime. Ma noi siamo quelli dei dieci secondi, via una cosa sotto un'altra. Non si è riflettuto abbastanza sulla perdita di sacralità di queste montagne che sono anima e identità di una comunità che per secoli è cresciuta nelle vallate sottostanti, guardando al tramonto la Marmolada. Le montagne siamo noi. Con Vaia sono caduti 16 milioni di alberi esattamente cento anni dopo i 16 milioni di caduti della prima guerra mondiale: se non guardo a questi numeri per trasformarli in letteratura e offrire dei segnali, che scrittore sono?».
Siamo a un punto di non ritorno?
«Non è affatto quello che voglio pensare. Dopo Vaia c'è stata una crescita della biodiversità: piante nuove sono un esempio buono. Tuttavia ci sono troppe persone, anche intellettuali, seduti nei propri salotti a bere vini naturali in una comfort zone in cui si fa satira, si fa ironia, ma non si partecipa.
Voglio lasciarla con questa immagine: quando accompagno le persone in montagna, e ne porto tante, io anziché il tramonto guardo gli occhi di chi guarda il tramonto. Ed è lì che scopro il momento sublime: una luce pazzesca. E quella luce, quegli sguardi, quelle lacrime io in città non le vedo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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