La battaglia della propaganda: i botti nascondono le bombe degli alleati

TripoliI fuochi d’artificio per mascherare i bombardamenti sono la trovata più tragicomica della guerra in Libia, che va avanti fra bombe e balle. La scorsa notte gli alleati hanno pestato duro, a Tripoli e dintorni, con ripetuti raid e lanci di missili Tomahawk dal mare. Dal centro della capitale si sono viste bene le esplosioni di alcune bombe, che sprigionavano prima un flash bianco nel buio della notte e poi una nuvola rossastra seguita da un sordo boato. Un attimo dopo i governativi hanno «sparato» nello stesso punto dei veri fuochi d’artificio, come quelli per Ferragosto. Sul primo momento siamo rimasti interdetti pure noi, giornalisti abituati alle guerre. Il pacchiano tentativo era mascherare l’attacco o sminuirlo, con una scenetta pirotecnica per far pensare che la situazione è sotto controllo.
Un’altra balla messa abilmente a segno dal regime è la leggenda del bunker di Gheddafi a Bab al Azizya, la cittadella fortificata al centro di Tripoli. Prima dei raid era la residenza del colonnello, già bombardata dagli americani nel 1986. Simbolo del potere, alle prime bombe è stata aperta ai volenterosi scudi umani decisi a difendere il capo. Gheddafi da vera volpe del deserto ogni tanto spunta a Bab al Azizya e lancia proclami bellicosi. Peccato che proprio per questo ruolo propagandistico e mediatico, non sia più il bunker del colonnello che si nasconde in ben altri rifugi.
Sulle tv di mezzo mondo, però, si annuncia quasi ogni sera il bombardamento del bunker di Gheddafi a Bab al Azizya. In realtà solo una volta un missile ha colpito un edificio amministrativo che si è afflosciato come un castello di carte. Sui 100 morti e 1.300 feriti denunciati dai libici se ne sentono di tutti i colori. All’inizio cercavano di spacciare la tesi che erano solo civili. Però ai funerali collettivi ci sono pure soldati in divisa, che piangono i loro commilitoni. Moftha Hassan, invece, è un padre di famiglia di 51 anni, che ha perso quattro figli e la moglie in un colpo solo durante i bombardamenti della scorsa notte. Cappotto blu e occhi lucidi è il più onesto di tutti: «Nessuna esplosione di una bomba, ma un pezzo di missile o qualcosa del genere caduto sul tetto, che ha ceduto seppellendo la mia famiglia. L’obiettivo militare era a due chilometri».
Alle quattro del mattino di mercoledì i libici hanno tirato giù dal letto alcuni giornalisti per farli vedere 18 corpi carbonizzati e irriconoscibili nell’obitorio di un ospedale. Anche i ribelli le sparano grosse sostenendo che sono oppositori fatti fuori e mostrati come vittime dei raid.
Sui siti dei bombardamenti, dove avrebbero raccolto i corpi, però, non ci portano quasi mai. Due giorni fa siamo partiti a razzo verso un’ipotetica casa civile colpita «dall’attacco dei crociati». Dopo mezz’ora di ricerche non si è capito bene se le guide del ministero dell’Informazione avevano sbagliato strada, la casa non esisteva, oppure era un obiettivo militare. La propaganda è tale che ieri hanno cercato di convincere i giornalisti a seguire la «marcia della pace» su Bengasi, roccaforte dei ribelli, organizzata dalle tribù pro Gheddafi. Mussa Ibrahim, portavoce del governo, aveva annunciato la presenza di 50mila marciatori pacifisti. Al via da Tripoli erano meno di 70 persone.

Raja Beitelan, donna velata con occhiali alla moda, giurava di aver lasciato il testamento alla famiglia per partecipare alla marcia. Finito lo show davanti alla telecamere, invece che salire sugli autobus scassati dei comuni marciatori, si piazzava in un elegante Suv, che sospettiamo non si dirigerà mai verso Bengasi.
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