Il battesimo di massa nelle acque del Volga prima della battaglia

La dura marcia dello Stato maggiore e delle truppe del Fronte Sud-Occidentale da Valujki a Stalingrado si era compiuta.

Per concessione della casa editrice Adelphi, pubblichiamo un brano del romanzo Stalingrado, di Vasilij Grossman (pagg. 884, euro 28, traduzione di Claudia Zonghetti), per la prima volta pubblicato in italiano.

La dura marcia dello Stato maggiore e delle truppe del Fronte Sud-Occidentale da Valujki a Stalingrado si era compiuta. Si diceva che, appena arrivato, il comandante - Maresciallo Timoenko - fosse andato subito a farsi un bagno nel Volga per togliersi di dosso la polvere di quella ritirata tremenda e straziante. Una polvere che era entrata nelle vene e nel cuore di tutti. La missione che gli si prospettava - portare in salvo uomini e armi - era stata faticosa e dolorosa insieme.

Il nemico aveva fatto di tutto per trasformare la ritirata in fuga. Più volte la linea del fronte era stata rotta, spezzata, frammentata, e le unità mobili tedesche erano arrivate a lambire le retrovie sovietiche. C'erano stati momenti, addirittura, in cui le colonne di carri armati tedeschi e quelle di camion sovietici carichi di soldati, armi e munizioni erano avanzate nella polvere su due strade parallele, scorgendosi da distante senza colpo ferire.

Nel giugno del 1941 era successo sulla carreggiabile di Kobrin, di Berëza-Kartuzskaja, di Sluck. Nel luglio dello stesso anno era capitato a L'vov, quando i carri armati tedeschi, avanzando da Rovno verso Novograd-Volynskij, itomir e Korostyëv, si erano lasciati alle spalle le colonne di soldati sovietici che arretravano in direzione del Dnepr.

Timoenko era riuscito a portare in salvo oltre il Don diverse divisioni e armate, ma ci aveva rimesso qualcosa che i più alti gradi dell'esercito non avevano considerato: passando il Don, decine di migliaia di soldati persero la fiducia nella propria forza e nel futuro. Dell'entità di quella perdita poteva rendersi conto solo chi, nell'agosto del 1942, avesse visto con i propri occhi le colonne interminabili di uomini stremati che marciavano giorno e notte verso est con fucili e cannoni.

Il Maresciallo Timoenko portò comunque a termine la missione che gli avevano affidato e, una volta raggiunta Stalingrado, trascorse qualche ora nelle acque del Volga insieme ai suoi ufficiali.

Molti furono i soldati dell'Armata Rossa che scesero lungo i dirupi fino all'acqua per sedersi sulla sabbia scintillante di granelli di quarzo e frammenti madreperlacei di conchiglie. Erano maschere di smorfie quelle che camminavano sugli scogli puntuti di arenaria che il fiume aveva portato a riva, mentre il respiro dell'acqua accarezzava le palpebre infiammate. Lentamente i soldati si tolsero le scarpe. Alcuni di quei piedi piagati avevano marciato dal Donec al Volga, e il dolore era tale che ad acuirlo bastava un alito di vento. I soldati srotolavano le pezze con grande cautela, quasi fossero bende di una fasciatura. I più ricchi si lavavano con un rimasuglio di sapone, gli altri si raschiavano il corpo con le unghie e la sabbia. Polvere e sporco formavano sull'acqua chiazze nere e bluastre, fra i mugolii soddisfatti di chi si staccava di dosso uno strato di polvere secca che pareva carta vetrata. Maglie e casacche lavate furono stese ad asciugare, fermate con i sassi perché il vento allegro del Volga non le trascinasse in acqua.

Mentre si lavavano collo e teste rasate sbruffando compiaciuti, i soldati capivano il senso recondito e simbolico di quelle abluzioni. Per le sorti della Russia, quel battesimo di massa nel Volga prima di una battaglia disperata per la libertà poteva risultare persino più fatale di quello nel Dnepr di mille anni prima.

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