La beffa di Al Qaida alla Cia: un infiltrato dietro la strage

Cornuti e mazziati. Massacrati e raggirati. Ora è chiaro. L’uccisione di sette agenti Cia nella base di Chapman, un avamposto semisegreto nella turbolenta provincia afghana di Khost, è stata causata da un finto agente «amico», doppiogiochista, infiltrato da Al Qaida, che si è fatto saltare in aria. È il peggior colpo inferto a Langley in 26 anni. Una mazzata arrivata a pochi giorni dall’attentato al volo Amsterdam-Detroit che ha messo a nudo le falle dell’intelligence Usa. Stavolta è persino peggio. Stavolta il danno fa tremare la Cia, blocca la guerra al terrorismo, rilancia l’immagine di Osama, appanna quella di Obama. L’inganno, oltre ad essere andato perfettamente a segno, dimostra la geometrica efficienza di Al Qaida, la sua capacita di farsi gioco di Langley e di quei servizi segreti giordani considerati, fino ad oggi, la miglior intelligence mediorientale. Ma non solo. La bomba indossata dall’infiltrato prescelto per decapitare Al Qaida, regala, invece, nuova libertà d’azione ai capi del terrore. I sette agenti senza nome liquidati in un sol colpo erano i coordinatori di quella complessa guerra segreta ai capi del terrorismo condotta con gli aerei senza pilota. Una guerra per cui non è facile trovare immediatamente nuovi e capaci demiurghi.
La micidiale beffa inizia dalla Giordania, da quella città di Zarqa già famosa per aver dato i natali ad Al Zarqawi, il sanguinario capo della cellula irachena di Al Qaida. Stavolta l’uomo di Zarqa si chiama Humam Khalil Abu-Mulal al-Balawi ed è un medico 36enne conosciuto come uno dei principali disseminatori del verbo di Al Qaida su Internet. Nel dicembre 2007 finisce nel mirino del Direttorato Generale d’Intelligence, i temuti servizi segreti giordani, punta di lancia nella lotta al terrorismo mediorientale. Ma Al Balawi ha un piano. Dopo poche settimane di galera dà segni di ravvedimento, si dichiara pentito. I giordani ci cascano e gli offrono un corso di riabilitazione. Lo stesso, vien da pensare, brillantemente superato dagli ex detenuti sauditi di Guantanamo, diventati i nuovi dirigenti di Al Qaida in Yemen. Il piano di Al Balawi è più subdolo perché al termine della riabilitazione annuncia di esser pronto alla collaborazione e al doppio gioco. Non fa tutto da solo. Evidentemente qualcuno gli passa informazioni preziose, indispensabili per conquistarsi la fiducia delle smaliziate spie giordane. La trama è degna del più intricato film di spionaggio. Nella vita apparente Al Balawi continua a colloquiare via internet con i più assatanati jihadisti. Nella vita parallela numero uno collabora con i giordani. Nella vita parallela numero due complotta con i vertici di Al Qaida.
La congiura arriva al dunque un anno fa, quando Al Balawi si offre di partire per l’Afghanistan e infiltrarsi nei vertici del terrorismo. I giordani riferiscono alla Cia, offrono garanzie. Per Langley, all’eterna ricerca della talpa perfetta, Al Balawi è l’uomo della provvidenza. Lo diventa ancor di più quando annuncia di poter avvicinare Zawahiri. Non si sa se la certezza si basi sulla comune professione di medico o sulla necessità per il numero 2 di Al Qaida di sottoporsi a cure urgenti. Ad Amman sono così convinti della sua buona fede da affidarlo al capitano Sharif Ali bin Zeid, un cugino del re considerato uno dei più brillanti e promettenti ufficiali del Direttorato. Al Balawi ricambia con la più perfida delle dissimulazioni. Per far capire quanto vicino sia all’obiettivo rilascia a Vanguard of Khorasan, la principale pubblicazione di Al Qaida, un’intervista che suona come una sottile presa in giro. «Ho sin da piccolo una predisposizione per jihad e martirio, quando l'amore per la jihad entra nel cuore di un uomo, non lo lascia neanche a volerlo». Nessuno dubita. Così quando Al Balawi chiama il capitano Sharif e annuncia di essere a un passo dall’obiettivo la cellula Cia responsabile della caccia ai capi di Al Qaida si precipita a Chapman, attende con impazienza il ritorno della presunta talpa infiltrata nell’area tribale pakistana per scovare Al Zawahiri.
L’appuntamento è nella palestra della base e Al Balawi sembra il messia. Nessuno lo ferma, nessuno lo perquisisce. Lui si avvicina accompagnato dal capitano Sharif, stringe qualche mano, preme l’innesco. Una vampata dopo la cellula Cia più temuta e segreta di Pakistan e Afghanistan non esiste più.


Il 13 ottobre 1983 iraniani e Hezbollah impiegarono decine di informatori e mille chili di esplosivo per far fuori il capo delle operazioni mediorientali della Cia Robert Ames e i 7 responsabili dell’area riuniti nell’ambasciata Usa di Beirut. Stavolta sono bastati un uomo e pochi chili di esplosivo. Quella volta la Cia impiegò anni per riprendersi. Stavolta il destino è ancora tutto da scrivere.

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