Un bel «Romeo» apre il Festival della Valle d’Itria

Antonio Cirignano

da Martina Franca (Taranto)

Si fa presto a dire l’orbita verdiana. Attorno al genio solitario di Verdi nell’Italia postunitaria si sviluppò un indotto dai confini inafferrabili, ora fiacco epigonismo, ora mix di ambizioni esotiche e velleità nostrane. Fedele alla sua vocazione per l’opera rara, il Festival della Valle d’Itria si tuffa in quel mare agitato e apre la sua 31ª edizione (sedici spettacoli fino all’11 agosto) con un cimelio come Romeo e Giulietta del marchigiano Filippo Marchetti (1831-1902), opera che esordì a Trieste nel 1865 ed ebbe poi un ventennio di discreti successi prima di scomparire del tutto dai repertori. La nuova edizione critica promossa dal festival e curata da Lamberto Lugli è andata in scena per la direzione di Andriy Yurkevych alla guida dell’Orchestra Internazionale d’Italia (in diretta su Radiotre), con regia, scene e costumi di Massimo Gasparon. Presto sarà disponibile in cd quale prima esecuzione in tempi moderni. Un paradosso crudele tocca gli artisti «minori»: non è possibile definirli se non in rapporto ai grandi del loro tempo, ma proprio il confronto coi grandi li schiaccia e li annienta. Così, accostato al Verdi introspettivo e bruciante del Don Carlos, Marchetti appare un tranquillo impiegato del melodramma, senza pretese e di poco carattere. Il che è vero solo in parte, perché invece un suo carattere, più melodico che drammatico, più oleografico che psicologico, Marchetti ce l’ha, e l’allestimento di Martina Franca lo restituisce puntualmente. Non c’è una sola pagina «brutta» nel Romeo e Giulietta, non una forzatura, non una caduta. Poi la melodia è scolastica, prevedibile, l’armonia non conosce brivido, il dramma è assente. Il libretto di Marco Marcelliano Marcello, tutt’altro che indegno, è assai aderente al dramma scespiriano, del quale vuol essere null’altro che una «fotografia». La regia fa ben poco per animare un’opera già statica. Ai cantanti non resta che salire e scendere interminabili scale, sulle quali si amoreggia, si complotta, ci si uccide.

E naturalmente si canta, ciò che fanno assai bene, con poche sbavature tecniche, i protagonisti: la Giulietta di Serena Daolio (soprano), timbro caldo e fraseggio ben tornito, il Romeo di Roberto Iuliano, tenore di tinta limpida e bella pronuncia, il Paride del baritono Dario Solari, dal suono brunito e pastoso. Discreti i comprimari. Ottimo successo di pubblico: un'apertura di festival fra applausi lunghi e calorosi.

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