Dalla bellezza la forza per risollevarsi

Dalla bellezza la forza per risollevarsi

Ogni essere umano ha sperimentato la sconfitta nei suoi multiformi aspetti. C'è chi l’ha usata, con la nefanda complicità dei media, come alibi per imboccare la strada della resa, chi invece l’ha saputa sublimare, trasformandola in strumento di crescita. È comunque consigliabile non attribuire sistematicamente agli altri la responsabilità dei nostri fallimenti.

Cercherò di riassumere come io reagisca ai non pochi insuccessi che contrassegnano la mia lunga carriera essendo il mio mestiere ad altissima visibilità e quindi ad altissimo rischio. Un mestiere che ti costringe ad accattonare continuamente il consenso dei più. Queste le ragioni per le quali l’insuccesso nel nostro campo è difficilissimo da metabolizzare. L’età e quindi l’esperienza, anziché dotarti di quegli strumenti utili ad affrontare una sconfitta, ti hanno reso più fragile, più vulnerabile, più suscettibile.

La negazione di apprezzamento a un tuo film si estende così a tutta la tua carriera riverberandosi addirittura sull’intero contesto familiare. A ridosso di un insuccesso si cancellano viaggi, cene, acquisti. Ci si rende indisponibili alle effusioni così come non si cambia più la tappezzeria del salotto, si disdice la settimana bianca, non si risponde alla corrispondenza e ai fattorini non viene più data la mancia. L’insuccesso ammorba di sé tutto il tuo presente. Ti incattivisce. Sai bene che così esplicitamente sconfitto ti sarà difficile uscire per strada, sfigurato dai tanti cazzotti che ti hanno mandato al tappeto. Così malconcio ti sarà impossibile chiedere di essere messo nuovamente alla prova.

E allora cosa fare? Il mio metodo, da considerarsi del tutto personale, consiste nell’esporre il mio disappunto all’abbacinante bellezza del mondo in cui abbiamo lo straordinario privilegio di vivere. Riempirmi di quella profonda misteriosa serenità, che riesco a ritrovare nell’accedere a una situazione dove il tempo è più grande. Nel film «Ma quando arrivano le ragazze?» so di aver sufficientemente esemplificato cosa intendo con tempo più grande. In quel racconto la dolorosissima scoperta del giovane protagonista di essere privo del talento necessario per diventare grande musicista coincide con l’appalesarsi e con lo scomparire nella notte siderale di una cometa.

L’amara esperienza di quel ragazzo, esacerbato dal senso di fallimento, si compara con il manifestarsi di questo immenso asteroide, in un cielo più sconfinato di tutti i cieli. È nell’accadere di questi due eventi, assolutamente incommensurabili e tuttavia simultanei, che lo smacco riservato a quel giovane si riduce a un nonnulla, stemperandosi. E così si placa il suo rancore. Di queste contiguità così speciali a cui ricorrere ognuno di noi dovrebbe aver fatto provvista, per le giornate difficili.

Il Foro Romano è un luogo fra i tanti capace di esercitare su di me questo straordinario effetto terapeutico. È lì, nel sacrale silenzio di quelle rovine, di quei templi, di quei palazzi in cui la storia si perde nella leggenda, che ho trascinato più volte a viva forza le mie piccole, squallide, imbarazzanti sconfitte professionali. E lì, nel confrontarsi con la commovente bellezza della classicità, con quel tempo più grande, che le ragioni del mio risentimento divengono insostenibili. È quella stessa bellezza a travolgermi fiaccando ogni astiosità. E allora nel vagone della metro che mi riconduce a casa guardo le persone che lo affollano, che non mi sono più estranee e delle quali più non diffido.

Avverto insomma

la grande ebbrezza che ti da la consapevolezza di esserti riconciliato con il mondo e, nel contempo, la smania di essere quanto prima chiamato a giocare una nuova partita. Restituito alla sacrosanta illusione di vincerla.

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