Bender, intuizioni ostinate

Aimee Bender, la scrittrice americana dal profilo gitano di zingara e la voce da favolista pop, lascia su ciascuna delle sue pagine l’impronta di un segno invisibile. Non si vede, ma si capta infallibilmente all’orecchio: ritmato sul tempo dei quattro rintocchi che la protagonista del suo ammaliante romanzo - Un segno invisibile e mio (minimum fax, 2002) - batteva con le nocche delle dita su tutte le superfici disposte a risuonare. La tastiera d’un piano e il piano di un tavolo. Il muro di casa, la lastra di vero o il foglio di carta. Ti-ti-ti-tìc, ta-ta-ta-tàc. Rieccolo sulla carta che impagina le sue Creature ostinate (minimum fax, pagg. 158, euro 12,50). Scandito a passo svelto di danza sulla misura breve dei racconti - in tutto quindici fulminee short story -, seguito in euritmica armonia, in accordo ton-sur-ton di traduzione, nella versione italiana di Martina Testa, solletica l’orecchio e i piedi ballerini, fin dalle prime frasi.
L’invito è irresistibile. Anche se l’autrice, sospinta da un’immaginazione concitata, trascinata da un tactus travolgente, si lancia da subito in evoluzioni compositive spericolate. Precipita così i dieci personaggi della prima storia nella spirale vorticosa di un male inguaribile, diagnosticato da medici spietati con prognosi di due settimane di vita. Poi, impassibile, li guarda piangere, amare, infuriarsi, viaggiare: nel crescendo vertiginoso che li porta uno dopo l’altro all’inaudita sorpresa del finale. O invece miniaturizza alle dimensioni di un pulcino l’omino che, chiuso in una gabbia, venduto al negozio di animali, esibisce su scala ridotta - e in proporzione inversamente amplificata - le noie, le attese, le insofferenze e le claustrofobie vissute comunemente dai liberi, dai grandi e dai normali. O ancora fa salire la febbre di un sabato sera sulla colonnina di mercurio portata indosso, con l’abito di gala, dalla vamp più ruggente della festa: inguainata in un vestito di lamé d’argento, decisa a baciare tre invitati - uno biondo, uno rosso e uno moro -, prima dello scoccare della mezzanotte, ecco che sente già i primi quattro rintocchi, e allora...
Numeri esattissimi e conti alla rovescia, armonie matematiche e melodici sviluppi narrativi, equilibri calcolati e imprevedibili colpi di scena. È la formula algebrica dell’arte di Aimee Bender.

La cifra segreta che, nascosta tra i veli dark di un umorismo crudele, vestita delle paillettes al mercurio di una scintillante cenerentola predatrice, avvolta come un bozzolo in un asciugamano bianco «per passeggiare fra tigri e delfini», o abbottonata nella giacca di tweed di un bambolotto cinguettante e vivo, governa con le stesse leggi la musica e la prosa della scrittrice trentasettenne. Ma prosa e musica sono equivalenti nella scrittura che, al segno di un comando invisibile, spara a raffica le sue trovate. Su un tempo mitragliato in quattro quarti al ritmo ta-ta-ta-tàc.

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