Da anni le tracce dei temi della maturità e le altre prove di esame rappresentano una grande occasione di divertimento e ilarità. Negli anni di Berlinguer (e dintorni) al ministero, che ribattezzammo della Pubblica Distruzione, dettero il «meglio» di sé addirittura con qualche errore di ortografia («dai», voce del verbo dare, veniva scritto «dà» con l'accento anziché con l'apostrofo) e con una sequela di citazioni sbagliate: da Majakovskij a Newton, da Marinetti a Bobbio (il quale comprensibilmente s'inviperì). Serviva forse a far divertire gli studenti.
Perfino il titolo di un film di Chaplin uscì malconcio dagli uffici ministeriali. Una volta hanno sbagliato a trascrivere un brano (era tratto dalla «Guida alla storia contemporanea» di Barraclough) che doveva servire ai ragazzi come documento di riflessione. E - per dire - in un'altra traccia dettero la sensazione di ignorare la storia dei governi di Giolitti e della Grande Guerra.
In quei «gloriosi» anni fu assegnato perfino un compito di matematica sbagliato agli studenti dei licei scientifici. Per non dire delle traduzioni di greco deturpate dal taglia e cuci e dalla punteggiatura: «Mi pare scandaloso» scrisse il professor Casciola «che il ministero della Pubblica Istruzione non riesca a fornire 17 righe di testo greco prive di errori».
Il ministro Berlinguer, per non essere da meno dei suoi esperti, volle presentare alla stampa il «nuovo» esame di maturità dichiarando testualmente: «Come dicevano i greci mens sana in corpore sano» (avete letto bene: i greci). La citazione mi ricordò la malignità di alcuni studenti che ai miei tempi - anni Settanta - applicavano quel motto «greco» (con un leggero ritocco) al grande bordello post-sessantottesco della scuola italica: «Mens nana in corpore vano».
Con l'arrivo del ministro Moratti non si sono ripetuti quei «divertenti» episodi. È tutto più serio, ma non è per niente seria, questanno, la fuga di notizie su qualche tema (che andrebbe assolutamente chiarita). A parte questo i temi sono buoni? Mica tanto. Si ha la sensazione che la burocrazia che elabora queste prove di esame sia sempre la stessa. Avverti dietro la scelta dei temi sempre un orizzonte culturale sciatto, retorico e conformista, molto politically correct. Anche quest'anno l'impressione è la stessa. Per esempio il tema sulla «libertà»: da Omero a Manzoni, da Machiavelli a Verga e poi a Quasimodo, Eluard, Martin Luther King e Delacroix. Diversi contesti storici, cioè tutte le declinazioni della parola libertà meno quella che ha riguardato tanti popoli europei che quindici anni fa si sono liberati dall'oppressione del comunismo (il più longevo e grande nemico della libertà che la nostra generazione abbia visto). Faceva proprio schifo, agli «esperti» del ministero, trovare una pagina sulla libertà - che so - di Solzenicyn o Havel, di Salamov o di Pasternak, di Tarkovskij o di Mandelstam o dell'Achmatova o di Karol Wojtyla o del premio Nobel per la poesia Czeslaw Milosz?
Probabilmente sì: la parola comunismo sembra ancora un tabù. In compenso ci sono fascismo e nazismo, nel terzo tema, sia pure sotto la formula «regimi nazionalistici»: un tema che riguardava la nascita dellEuropa unita, nel dopoguerra, ma per il quale sono state fornite tracce imprecise e soprattutto con un'ottica esclusivamente economica e politico-militare. Leggendole sembra che non esista un'identità culturale e spirituale del nostro continente, né una grande storia che ha forgiato l'Europa.
Per la traccia socio-economica è stato scelto il tema del viaggio come «metafora della vita», che ovviamente non c'entra un fico secco con l'economia. Tanto è vero che gli autori citati (Saramago, Todorov, Magris, Soldati e Affinati) sono tutti letterati e con pagine non proprio splendide. Dunque un tema confuso e fuorviante. Deve averlo pensato il dottor Divago.
Il tema sulle catastrofi naturali - con le solite vaghe citazioni politically correct (Rusconi) - non riesce a focalizzare né il cuore del problema, la precarietà della condizione umana, né lo specifico che doveva essere «tecnico-scientifico»: i brani di Platone e Goethe non sono proprio i più aggiornati per capire la scienza e la tecnica del 2000. Del resto lo tsunami e i terremoti a cui si fa riferimento ci parlano di una natura devastata dalla natura stessa, dove l'uomo oltreché vittima è custode e difensore della terra. E dunque ha un ruolo assai diverso dalla vulgata della cultura dominante ecologista, che lo dipinge come «cancro del pianeta». La traccia del tema conteneva formidabili rivelazioni come questa di Boncinelli: «La verità è che non siamo ancora in condizione di prevedere i terremoti e i maremoti». Ma davvero? Uno scoop.
Tralasciando - per carità di patria - il tema su Einstein di cui il titolo ministeriale fornisce la solita icona banale e conformista (ben diversa dal vero Einstein), veniamo all'unica, autentica, felice novità: il ritorno di Dante. Questa sì che è una scelta grande e coraggiosa. Ho la vaga sensazione che ci sia dietro il ministro Moratti. È una splendida idea. Ma con tre magagne grosse come case.
Innanzitutto il percorso fornito dalle domande - sul canto XVII del Paradiso che narra il dialogo di Dante con il suo avo Cacciaguida - è assai banalizzante e costringe, come è stato notato, ad andare fuori tema per poter dire qualcosa di interessante. In secondo luogo il canto, ancorché celebre, non centra i temi fondamentali della Commedia. Ma soprattutto oggi nessuno più insegna la Divina Commedia: neanche nel liceo classico. La maggior parte se la cava con un rapido sguardo sul Paradiso, liquidato nel quarto anno insieme al Purgatorio.
Questa è una grande questione culturale. Come si fa a chiedere di spiegare «la funzione che Dante ha avuto per la coscienza politica, culturale e linguistica degli italiani e per la coscienza morale individuale dei suoi lettori» se nessuno più, nella scuola italiana, insegna Dante? È uno dei nodi della scuola italiana. Perché la Divina Commedia non è solo un capolavoro assoluto della letteratura. Non è solo un poema che non ha eguali. È molto di più per noi come nazione, come popolo. È il testo normativo che fonda l'identità linguistica del popolo italiano. È insomma il nostro atto di nascita ufficiale come popolo.
Come ha spiegato magistralmente Ignazio Baldelli, ci sono le lingue della corte: francese e inglese. Le quali presero come propria norma la lingua parlata a corte nel momento della loro massima potenza. Poi ci sono le lingue del Libro: l'ebraico dalla Bibbia, l'arabo dal Corano, il tedesco dalla traduzione della Bibbia di Lutero. E sono tutti libri sacri. L'italiano è un caso unico: l'unica lingua che ha preso un libro di poesia (damore e di fede) come sua norma. Dunque la Divina Commedia è qualcosa di unico, anche in rapporto alla nostra identità.
Ha fatto perciò benissimo il ministero a riportare Dante nella scuola italiana, ma non può bastare un tema alla maturità. È fondamentale che si torni a insegnare la Divina Commedia, che oltretutto è affascinante, bellissima, appassionante come dimostra il successo delle letture pubbliche che sono state fatte in questi anni (penso a quelle di Sermonti, ma anche a quelle splendide di Benigni in televisione).
Il ministro Moratti - che si è dimostrato il miglior ministro della Pubblica istruzione degli ultimi trent'anni - può passare alla storia così: riportando Dante nella scuola, ridonandoci la bellezza della sua poesia. Facendoci ritrovare, nelle sue mirabili terzine, la nostra identità di popolo. Sarebbe un'ottima idea per un governo di centrodestra.
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