Bernardini, quel dottor Pedata nato 100 anni fa

Bandiera di Roma, laureato in economia, unico in tutto

Elia Pagnoni

In principio era «Fuffo», alla fine diventò il «Dottor Pedata» secondo l'immancabile colorita lettura di Gianni Brera. Ma quando infiammava il Testaccio, lo chiamavano persino «Garibaldi». Fulvio Bernardini era nato proprio a Roma cent'anni fa, il 29 dicembre 1905 e fu un prototipo in tutto: fu una delle prime «bombe» del mercato, quando passò dalla Lazio all'Inter per 150mila lire del 1926, fu uno dei primi e rarissimi esemplari di calciatori-laureati (da cui l'appellativo di dottore), fu soprattutto il primo giocatore del Centro-Sud a conquistare la maglia della nazionale. Erano tempi in cui il pallone era proprietà assoluta di Torino e Milano, Genova e Bologna, Vercelli e Casale. Ma per Italia-Francia del marzo '25, uno dei commissari tecnici «geopolitici», il rappresentante del Sud Baccani, impose l’inserimento del centromediano della Lazio.
La classe di Bernardini giustificò comunque ampiamente quella convocazione, tanto che negli anni a seguire non solo divenne una colonna della nazionale, ma venne subito chiamato in una delle grandi squadre del Nord, l'Inter appunto, e a Milano Fuffo trovò anche il tempo per iscriversi alla Bocconi e laurearsi in Economia. All'inizio degli anni Trenta, tuttavia, si trasferì nuovamente nella capitale, questa volta sponda Roma, e divenne una delle bandiere giallorosse. In pochi anni però si bruciò anche la sua carriera in nazionale perchè, proprio alla vigilia del grande ciclo mondiale del '34-38 il ct Vittorio Pozzo lo mise elegantemente alla porta dicendogli: «Lei gioca in modo superiore, direi perfetto. E gli altri giocando accanto a lei potrebbero trovarsi in soggezione». Così Fuffo finì in tribuna e la sua maglia finì a Luisito Monti.
Il dottor Bernardini non se la prese più di tanto, continuò a giocare fino a 35 anni; sposò Ines, la figlia di Guglielmo Giannini il fondatore dell'Uomo Qualunque; ma continuò soprattutto a studiare calcio. Nel '39, vedendo Italia-Inghilterra a Milano, venne folgorato dal «sistema», il modulo inglese che prevedeva tre difensori in linea e due mediani, e cominciò la scalata alle panchine dei grandi club.
Partì dal Vicenza, poi approdò alla Fiorentina negli anni Cinquanta, per regalare ai viola il loro primo scudetto nel '56. Secondo Gianni Brera, profeta del difensivismo, Bernardini predicava male (il sistema, appunto) ma razzolava bene, mettendo nella sua Fiorentina Beppone Chiappella davanti al libero Rosetta e soprattutto arretrando la finta ala Prini a fare il terzino aggiunto.
Mossa che il dottor Pedata si ricordò 8 anni più tardi quando riuscì in un altro miracolo calcistico, quello di riportare allo scudetto anche il Bologna: nello spareggio con l'Inter, infatti, lasciò fuori a sorpresa Pascutti e mise la maglia numero 11 sulle spalle del terzino Capra. E il Bologna vinse 2-0 al termine di una stagione assurda, tormentata dallo scandalo doping per cui i rossoblù vennero prima penalizzati e poi riabilitati e lo stesso Bernardini venne squalificato per 18 mesi prima di essere reintegrato. Dalla fine della guerra alla fine degli anni Sessanta gli unici due scudetti che sfuggirono a Milano e Torino li conquistò proprio lui.
Due anni più tardi, dopo la tragicommedia della Corea, Bernardini pensava che per la panchina azzurra fosse arrivato il suo momento. Ma si dovette accontentare della Sampdoria. Quando invece sembrava avviato a una serena pensione, arrivò la nomina a ct del dopo Valcareggi. Spazzò via i grandi vecchi (Rivera, Mazzola, Riva) e si sbizzarrì nelle convocazioni: in un solo anno gli azzurri furono 37. Solo Sacchi l'avrebbe superato.

Raccolse pochissimi risultati, ma Franchi e Carraro non osarono destituirlo. Fecero come Pozzo: lei è troppo bravo per fare l'allenatore si accomodi in tribuna come direttore tecnico e dia consigli a Bearzot. Forse l'Italia mondiale ha messo le radici proprio lì.

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