A Bernhard non serve alcuna "Correzione"

Un'impresa grandiosa e impossibile, una morte come rinascita e la letteratura come condanna

A Bernhard non serve alcuna "Correzione"

L'abbiamo scritto su instagram e lo scriveremo e diremo ovunque: inchinarsi alla vera grandezza è un atto di pura gioia, e non ammette altro che ammirazione. E noi la salutiamo quando appare, pur nella tristezza di questi giorni. È il caso della ripubblicazione, dopo tanti anni, di Correzione (Adelphi, pagg. 291, euro 20) capolavoro della fase centrale dell'opera di Thomas Bernhard, secondo George Steiner il suo più bello in assoluto.

Ma discutere su quale sia stato il romanzo più bello dello scrittore austriaco è vano. Steiner dice Correzione, Magris dice Perturbamento, io forse dico Cemento, ma trattandosi di Bernhard tutto questo ha poca importanza, perché nel caso di Bernhard ci troviamo di fronte a un'unica, immensa opera i cui pezzi - singoli romanzi, testi teatrali, libri autobiografici - come i capitoli della Recherche di Proust - non sono separabili uno dall'altro se non per il tempo di una lettura di pochi giorni, o di una serata a teatro. In questo, che è stato, fino alla sua morte (il 12 febbraio 1989), il più grande scrittore al mondo, la Letteratura appare come un unico continuum, in cui la critica sociale e politica (Bernhard fu venerato e odiato in patria), lo scavo nella natura umana attraverso la porta più accessibile (le nostre ossessioni, le nostre irritazioni), la riflessione amara sul cammino intrinsecamente, inevitabilmente fallimentare della vita di ciascuno (e l'uomo di genio ha, in questo quadro, l'amaro compito di mettere in luce davanti a tutti il proprio e nostro fallimento, ed è perciò destinato al rancore e all'incomprensione generale) - tutto questo si fonde delineando un'immagine dell'universo più perturbante che disperata.

In Correzione un uomo racconta la storia tragica del proprio amico più caro. Il modo di costruire il racconto è già una parte essenziale del racconto: l'amico sceglie di essere il miglior narratore possibile, il più onesto, il più intransigente non affinando il proprio senso critico, bensì annullandosi fino a pensare e sentire in tutto e per tutto come l'amico. Ma esiste un solo luogo in cui ciò è possibile: la soffitta di Höller l'imbalsamatore, perché soltanto lì l'amico - il naturalista Roithamer, che in più aspetti rievoca la figura di Ludwig Wittgenstein, il grande tragico filosofo viennese amatissimo da Bernhard - trova la concentrazione necessaria per realizzare l'opera della sua vita: la progettazione e costruzione (progetto e costruzione sembrano essere una stessa cosa) di un edificio destinato all'amata sorella, un edificio unico, dissimile da qualunque altro edificio, che sorgerà al centro di una vasta zona boschiva e avrà la forma di un cono, e sarà così perfetto, così contiguo alla natura (e alla natura di lei) da non poter produrre altro che la sua felicità definitiva. Che tutto ciò sfoci nel fallimento è prevedibile, poiché la natura - che Roithamer vuole imbrigliare unendo leggi matematiche e biologiche e insieme l'azione pratica (costruire con le proprie mani) - non può non fare i conti con l'azione scandalosa del Tempo. Insomma: una follia. Può esistere un edificio in grado, con la propria stessa architettura, di produrre la felicità? Ma, a un tempo, cosa potrebbe esistere di più ragionevole al mondo? Novalis definisce la filosofia come «l'arte di trovarsi ovunque come a casa propria», e non a caso Novalis è tra gli autori amati da Roithamer. La casa impossibile, che è anche la sola casa possibile: questo cerca l'uomo folle, nella cui follia s'identifica l'amico per poterne trarre il destino in forma di parole.

Il tema è, come si vede, romantico: e sembrerebbe strano, visto che nessuno più di Bernhard è stato nemico del romanticismo. Ma proprio qui sta una cifra essenziale della sua opera: la necessità di un incessante contraddittorio, di un vero e proprio nemico da abbattere e insieme celebrare. Per questo dicevamo che in Bernhard non esiste disperazione, e la ragione è che in lui non esiste solipsismo. I suoi personaggi che sempre, inevitabilmente, si isolano dal mondo per dar vita ai progetti più folli, hanno al tempo stesso bisogno del mondo che rifiutano, il mondo è presente in ogni loro sillaba, in ogni loro pensiero, e spesso è così presente come non lo sarebbe in qualsiasi atteggiamento più benevolo.

Ma ciò che più colpisce il lettore di Thomas Bernhard è la specularità della sua scrittura: il racconto, scavando nell'umanità del suo soggetto (in questo caso l'infelice esistenza autodistruttiva di Roithamer) scava a un tempo in sé stesso; più la figura di Roithamer emerge, limpida, nel magma di questo racconto circolare, avvolgente, senza tregua, più l'arte scava in sé stessa; più lo scrittore infligge ferite al suo protagonista, e più queste ferite si incidono nello scrittore, rivelando il senso stesso della Letteratura: un senso che non si realizza con le istruzioni, con un si fa così, ma con una doppia ferita: non solo la ferita da cui - come si dice - sgorga la scrittura (perché non esiste nessuno scrittore che non faccia i conti con la propria ferita), ma anche quella che lo scrittore produce in sé nell'atto di scrivere.

È ben difficile scrivere senza farsi male, parlare di sangue (ma anche d'amore) senza produrre altro sangue. Letti in profondità, senza troppi schermi protettivi, gli scrittori rivelano inimmaginabili somiglianze: Dostoevskij si affratella a Stendhal per il ruolo che l'invidia gioca in ambedue, Tolstoj a Omero per la coralità oceanica e via dicendo. Se così è - si tratta di un gioco, va da sé, utile proprio perché è un gioco - il solo paragone possibile per Bernhard è, per le ragioni addotte qui sopra, Dante Alighieri. Nessuna considerazione sul valore assoluto, né su quello storico, e nemmeno sulla scelta linguistica. Nessun avvicinamento sul fronte filosofico o ideologico, e men che meno sulle divergentissime mitografie, se anche solo si considera che in Bernhard tutto rifugge dal cattolicesimo: il suo mondo è popolato dai fantasmi degli antichi elfi. Eppure nessuno scrittore del XX secolo meglio di Bernhard ha saputo produrre un'opera così simile a quella di Dante, dove l'universo si squaderna in tutta la sua immensità e, a un tempo, si fa trasparente e raccolto come un cristallo, fino a far coincidere il senso di tutto con la propria purezza, fino a far coincidere la cosa raccontata (il mondo, la storia, Dio, il niente...) con l'azione stessa, qui e ora, del raccontare.

Chi, bambino, ha avuto la fortuna di avere una mamma o un papà o un nonno che gli raccontavano una fiaba prima della nanna sa quanto quelle parole semplici, quella voce trattenessero misteriosamente un

frammento di paradiso. Nella sua negatività aspra e straziata, Bernhard non ha mai voluto o potuto o saputo estromettere dalle proprie invettive, dai propri ritratti, dai propri destini un frammento di questa intima luce.

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